L'arte "è importante perché non è necessaria. E il superfluo è quello che ci serve per essere un po' felici", spiegava sicura la grande Lea Vergine con quella voce profonda che sembrava scolpita dal fumo delle sue mille sigarette. E aggiungeva sarcastica: "non ti aiuta a risolvere i problemi della vita, ma è un rifugio, in questo senso è un po' come una benzodiadepina". Un lavoro lungo sessant'anni alla ricerca dei perché dell'arte, sempre profonda, eversiva, tagliente, aveva fatto di lei una delle voci più autorevoli, intelligenti e innovative nel campo della critica. Il coronavirus unito ad altri malanni se l'è portata via in un soffio, una manciata di ore dopo Enzo Mari, l'amore della vita. Una coppia dell'arte fatta di opposti ("Siamo agli antipodi e la nostra storia ha funzionato in modo misterioso" confessava lei qualche anno fa in una bella intervista a Repubblica) e forse proprio per questo unitissima pur nella sfida e nel conflitto continuo.
Origini borghesi e partenopee lei, modesta famiglia piemontese lui, Enzo Mari e la bellissima Lea Vergine (ma il vero nome era Buoncristiano) si erano conosciuti a Napoli su invito di Carlo Giulio Argan. Lavorarono fianco a fianco per un anno alla creazione di una rivista d'avanguardia, la scintilla scoppiò ad incarico concluso. Un rapporto da amanti - entrambi si erano sposati giovanissimi - che costò loro non poche difficoltà nell'Italia pre divorzio degli anni Sessanta e persino l'arresto per concubinaggio. A Milano, dove si erano spostati a vivere in zona Magenta e dove è nata la figlia Meta, avevano amici d'eccellenza, da Gillo Dorfles a Ettore Sottsass ("Una persona straordinaria al di là di quello che ha fatto" lo ricordava lei) da Alessandro Mendini a Silvana Ottieri, Fabrizio Dentice, Camilla Cederna.
Erano gli anni tumultuosi e complicati della contestazione e del fervore politico e mentre Enzo disegnava gli oggetti "utili" che gli valsero una collezione di compassi d'oro, lei si fece notare per gli studi sulla fisicità e l'azione performativa nell'arte confluiti nel 1974 in un saggio che ha fatto epoca, "Il corpo come linguaggio" (Prearo editore) un testo cult su cui si sono formate generazioni di curatori. E poi con i lavori sulle donne artiste, spesso dimenticate, sommerse, anzi "suicidate" com'ebbe a dire lei intervistata qualche anno fa da Stefania Gaudiosi, impegno confluito in un altro testo notissimo, L'altra metà dell'avanguardia 1910- 1940 (1980 Mazzotta) . Elegantissima e fascinosa, raccontava con fastidio di aver lottato per una vita, soprattutto nella sua Napoli, contro gli stereotipi sessisti: "Mai che ti riconoscessero quello che tu eri o facevi - diceva - e tutta questa esteriorità è riduttiva, umiliante, offensiva". Eppure l'autorità, nel mondo dell'arte, non le è mai mancata, i suoi testi da "L'arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990", pubblicato da Skira nel 1996 a Body art e storie simili (2000 Skira) a Ininterrotti transiti (2001 Rizzoli) fino a L'arte non è faccenda di persone per bene (2016 Rizzoli) l'autobiografia in cui racconta la sua vita controcorrente, fatta di incontri straordinari, grandi amori, battaglie e utopie, sono stati tutti importanti e molto seguiti. Come le tante mostre che ha firmato da curatrice, chiamata anche nel 1990 a fare il commissario della Biennale.
"Scrivere era quello che mi piaceva di più", raccontava, per poi aggiungere con quel tono mordace che la caratterizzava , "perché gli artisti sono noiosi, ignoranti, pieni di sé... mi riservavo un certo distacco". Tant'è, con Enzo Mari Lea Vergine condivideva la critica feroce ai tempi attuali, all'ignoranza "devastante" dell'oggi, un tempo al quale contestava "la mancanza di dignità, di decenza, di vergogna". E bollava decisa anche il mutamento dei ruoli e le trasformazioni del mercato dell'arte ("oggi ci sono i curatori manager, i critici sono rarissimi") .
La morte li ha colti praticamente insieme, 88 anni lui, 82 lei, ammantando di struggente romanticismo la fine di un'unione lunga oltre 50 anni. Restano le opere. E quelle di Lea Vergine, come sottolinea nel ricordarla anche il ministro della cultura Franceschini, lasciano un segno.