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Lo zaino magico

Lo zaino magico

Trent'anni di 'missioni possibili'


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

di Redazione ANSA


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Virginia, una vita normale con lo zainetto

Virginia
Virginia - RIPRODUZIONE RISERVATA

“Mi piace cantare e disegnare. Anche andare a scuola, ma solo un po’”. Virginia è bionda e magrolina ma sprizza gioia dagli occhi. Quella che l’ha vista venire al mondo era stata una gravidanza perfetta fino a quel parto imprevisto, troppo anticipato e non nella sua città. E’ nata 9 anni fa al Policlinico di Bari mentre i genitori, milanesi, erano in vacanza in Puglia. “Ha deciso di nascere alla trentaduesima settimana. La prima notte non si è scaricata e ha iniziato a vomitare bile. Fu trasportata in tutta la Puglia, infine a Casarano vicino Lecce finalmente operata. Non ci diedero speranze”, a parlare è la mamma Alessandra, maestra d’asilo. Al secondo girono di vita ha subito una resezione massiva dell’intestino, dovuto ad un attorcigliamento, che le ha lasciato solo un centimetro di ileo, sette di duodeno e digiuno e poi il colon. 


“In Puglia non sono riusciti a gestire la situazione, a fatica siamo riusciti a tornare a Milano, la situazione sembrava drammatica”. Viene operata nuovamente all’Ospedale Buzzi, ma la ricanalizzazione fallisce e la bimba viene aperta e richiusa senza ottenere nessun miglioramento. Nel frattempo però iniziava ad avere danni epatici importanti. Quindi mamma e figlia vengono mandate agli Ospedali di Bergamo, dove rimangono ricoverate otto mesi. Di interventi ne sono seguiti altri tre, di cui uno in Inghilterra, molte di più i ricoveri e le visite, per cercare di migliorare la situazione. Quindi le dimissioni a casa, con la nutrizione parenterale. “Dopo varie infezioni e un calvario che è difficile descrivere – ricorda la mamma - ci dimettono dall’ospedale, spiegandoci che Virginia si sarebbe potuta nutrire, non mangiando dalla bocca, ma tramite nutrizione parenterale, ovvero assumendo nutrienti per vena tramite un catetere centrale. Sono stati periodi duri, ma non ci siamo persi d’animo. L’importante era comunque sapere che sarebbe sopravvissuta”.

Oggi Virginia ha un intestino ultra corto, con una superficie di assorbimento di soli 37 cm (un neonato alla nascita ne ha un metro e mezzo) ma sta bene. “Inizialmente non toccava cibo e aveva nutrizione h24”, non sapeva quale fosse il sapore di un biscotto, di una pesca, di pane e marmellata. “Oggi mangia un po’ anche dalla bocca e la attacchiamo un giorno si e un giorno no, tramite un catetere venoso, ad un dispositivo talmente piccolo che è contenuto in uno zainetto, che le consente di trascorrere le ore serali normalmente in famiglia”. E’ una bambina “disponibile, coraggiosa e allegra”. Va a scuola come tutti i suoi coetanei e fa tante attività extrascolastiche, dalla pittura al canto e teatro. “Il suo zainetto – conclude Alessandra - le ha consentito di crescere, istruirsi, uscire con gli amici, avere una vita normale”.

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In Italia 150 bimbi con insufficienza intestinale cronica

Antonella Diamanti
Antonella Diamanti - RIPRODUZIONE RISERVATA

In Italia i Centri di riferimento per la nutrizione articiale domiciliare sono dislocati a livello regionale. L’Ospedale Bambino Gesù di Roma rappresenta un punto di riferimento. È infatti il Centro riconosciuto dalla Regione Lazio come quello di Coordinamento Regionale per la Pediatria. Nel nostro Paese l’insufficienza intestinale cronica benigna riguarda circa 150 pazienti pediatrici. Un terzo di questi è seguito dalla dottoressa Antonella Diamanti, responsabile dell’Unità Operativa Nutrizione Artificiale del Bambino Gesù.

Sono almeno 150 i pazienti pediatrici in Italia costretti ad alimentarsi per vena a causa di una insufficienza intestinale cronica, ovvero incapaci di assorbire nutrienti a causa di un intestino troppo corto e costretti a essere alimentati con la somministrazione, direttamente in vena, dei vari componenti degli alimenti. Il loro numero è in crescita perché le cure neonatologiche sono migliorate ed è diminuita la mortalità dei piccoli pazienti. “Terapie sempre più precise consentono infatti la sopravvivenza di bambini che prima sarebbero morti. Oggi più dell’80% dei pazienti nutriti artificialmente sopravvive ma che necessiterà per lunghi periodi di tempo, forse per tutta la vita, di alimentazione artificiale”, spiega il dottor Fabio Fusaro, chirurgo neonatale esperto in insufficienza intestinale del Dipartimento di Neonatologia dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. “L’intestino corto nei bambini – prosegue - è dovuto a resezioni dell’organo, danneggiato a causa di malformazioni come volvolo, o attorcigliamento, atresie, ovvero tratti di intestino chiuso, e, più raramente, la gastroschisi o mancanza di parete addominale non chiusa. Ma la patologia dell’intestino chiuso può anche esser dovuta ad enterocolite necrotizzante, come più spesso accade nei neonati pretermine”, una necrosi dell’intestino dovuta ad un alterata circolazione del sangue all’interno della parete intestinale.

“I pretermine, infatti, presentano immaturità del tratto gastrointestinale che li rende più suscettibili a sviluppare enterocolite necrotizzante quando viene avviata l’alimentazione”, spiega Antonella Diamanti, responsabile unità operativa Nutrizione artificiale dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, presso la Divisione Gastroenterologia che segue almeno un terzo dei piccoli pazienti in nutrizione parenterale. In tutti questi casi, si parla di insufficienza intestinale benigna, ovvero non dovuta a patologie tumorali. E’ dovuta nel 60% dei casi ad intestino corto, ovvero che ha subito una resezione e non assorbe. Più corto è, e meno assorbe.

“Ci sono alcuni casi dove rimangono appena 10 centimetri. Come avviene in 15 bimbi in Italia, seguiti tutti dal centro di nutrizione artificiale della nostra Divisione Gastroenterologia”, spiega l’esperta. Diarrea continua e mancato assorbimento dai cibi che si assumono per bocca sono le conseguenze. “Il rischio è la mancata crescita e il mancato sviluppo sia fisico che cognitivo dei bambini. Per questo quelli che ne sono colpiti necessitano di una nutrizione per vena”, aggiunge Diamanti, che è anche membro del Consiglio direttivo della Società italiana gastroenterologia epatologia e nutrizione pediatrica (Sigenp). Il ‘cibo’, sottoforma liquida viene somministrato direttamente nel sangue. Molti di loro, specie nel periodo di crescita ne hanno bisogno in modo continuo durante il giorno. “Man mano crescendo si riesce però anche a diminuire il numero di ore di somministrazione”. Per questo, per andar a scuola come per andar a fare un viaggio o una gita fuori, non si muovono senza il loro ‘zainetto magico’. Uno zaino che contiene le sacche con l’equipaggiamento necessario alla loro sopravvivenza.

 

 

“L’insufficienza intestinale cronica benigna (IICB), dove per benigna si intende l’assenza di tumore maligno, è l’insufficienza d’organo che si verifica quando l’intestino non è in grado di mantenere un normale stato di nutrizione (e di crescita) dell’individuo a causa della perdita della capacità di digerire i cibi e di assorbire le sostanze nutritive in essi contenute. In pratica, l’intestino non è più in grado di svolgere la sua funzione primaria, cioè, nutrire l’organismo. Se non trattata, causa la morte per denutrizione”. A spiegarlo è il prof. Loris Pironi, responsabile del Centro insufficienza intestinale cronica del Policlinico Sant’Orsola di Bologna.
Quando si verifica?
Può verificarsi sia in soggetti adulti, sia in bambini e adolescenti, come conseguenza di malattie congenite o acquisite dell’apparato digerente. I meccanismi principali sono il malassorbimento intestinale, responsabile di circa i due terzi dei casi, dovuto ad un intestino corto (provocato ad esempio da infarto mesenterico) oppure a danni estesi della parente dell’intestino. Ma l’IICB può anche esser dovuta anche ad alterazione della motilità intestinale, che provocano una specie di paralisi dell’intestino, per cui il cibo non può progredire lungo l’apparato digerente.
Quali sono le aspettative dei pazienti?
La terapia ha tre obbiettivi principali: “salvavita”, cioè nutrire adeguatamente la persona, “riabilitazione intestinale”, cioè recuperare totalmente o almeno migliorare la funzione dell’intestino malato,“riabilitazione sociale”, cioè reinserire il paziente nel contesto della famiglia, dei rapporti sociali, del mondo lavorativo e scolastico. La terapia salvavita, che consente di nutrire adeguatamene il paziente, è la Nutrizione Parenterale Domiciliare (NPD): consiste nell'infusione direttamente nel sangue venoso di adeguate miscele nutritive. Il paziente impara ad effettuarla da solo, o con l’aiuto di un famigliare, a casa propria. Nella maggior parte dei casi l’infusione avviene durante le ore notturne per consentire una vita normale. Quando l’infusione deve essere effettuata di giorno, esistono dei sistemiportatili, contenuti in zainetti del tutto simili a quelli che si portano sulle spalle per andare al lavoro o a scuola, che consentono al paziente di muoversi liberamente anche fuori di casa.
La terapia riabilitativa intestinale consiste in interventi dietetici e farmacologici, ed in interventi di chirurgia cosiddetta non-trapiantologica. La terapia riabilitativa intestinale va tentata in tutti i pazienti. Circa il 50% dei pazienti con intestino corto ed il 20% di quelli con alterazione della motilità intestinale possono avere il recupero della funzione intestinale e poter così fare a meno della NPD. Infine, una terapia medica e nutrizionale appropriata può consentire ai pazienti con questa patologia di avere una buona aspettativa di vita, una buona probabilità di inserimento nel mondo scolastico e lavorativo e una serena vita famigliare. Tuttavia, alcuni pazienti possono presentare complicanze che ne mettono a rischio la vita. Per questi casi vi è l’indicazione al trapianto di intestino.
Quali sono le criticità dell'assistenza sanitaria per queste persone e le possibili soluzioni?
Sono riassumibili in tre parole, rarità, complessità e mancato riconoscimento. La IICB è la più rara delle insufficienze d’organo, e come tale è la meno conosciuta. In Italia vi sono circa 800-1000 pazienti in Nutrizione Parenterale a Domicilio (NPD). La gestione della malattia è complessa e richiede l’intervento coordinato sia di medici di diverse branche specialistiche, sia di farmacisti, infermieri e dietisti, che abbiano acquisito conoscenze specifiche e sviluppato una adeguata esperienza. I dati di letteratura dimostrano come l’andamento dei pazienti dipenda dalla qualità delle tecnologie disponibili e dalla esperienza dei professionisti che li hanno in cura. Tra questi l’ottimizzazione della terapia salvavita, cioè la NPD, ha un ruolo primario. Nel 2013, la IICB è stata inserita nella lista europea delle malattie rare (Orphanet), ma tale riconoscimento non è ancora stato recepito dal nostro Sistema Sanitario Nazionale. Le conseguenze delle criticità sono: assenza di percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali codificati, difficoltà dei professionisti di sviluppare una esperienza clinica efficace, difficoltà del paziente di accesso ad una appropriata assistenza sanitaria e socio-lavorativa, disomogeneità di trattamento sul territorio nazionale. Tali criticità verrebbero automaticamente risolte qualora venisse riconosciuta come patologia rara dal nostro SSN.

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150 bimbi con l'intestino ultracorto

150 bimbi con l'intestino ultracorto

La sacca su misura per ogni paziente

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null - RIPRODUZIONE RISERVATA

In Italia è la Farmacopea a regolamentare la preparazione e produzione delle sacche per la nutrizione parenterale a livello ospedaliero. Il confezionamento di queste sacche può comportare, per la complessità della loro preparazione, alcuni rischi dovuti alla prescrizione, trascrizione e somministrazione. Un non corretto allestimento delle sacche può aumentare il rischio di complicanze nei pazienti, fino al decesso.

Lo stesso Ministero della Salute ha iniziato a mettere in evidenza il rischio di procedure non corrette nella fase di prescrizione e allestimento ospedaliero delle sacche di nutrizione nella Raccomandazione 7 (Marzo 2008).

Siamo andati a scoprire come si producono queste sacche a livello ospedaliero e privato.

Sterile e controllata come un farmaco, ma personalizzata come un abito su misura che oltretutto cambia quando cambiano le esigenze del paziente. La via per ottenere una sacca per la nutrizione parenterale perfetta passa per una lunga serie di passaggi e controlli di qualità che impegnano il personale dello stabilimento Baxter di Sesto Fiorentino, che gestisce tutte le fasi di vita delle sacche. Dalla definizione della composizione fino alla consegna nel frigo apposito fornito in dotazione al paziente, la sacca passa sotto decine di occhi attenti, un monitoraggio che continua anche dopo, con la possibilità di intervenire subito se si verifica qualche problema.

"Il prodotto nasce principalmente da un lavoro a monte - spiega la responsabile della produzione dei nuovi prodotti - c'è una richiesta da parte del medico per un paziente specifico. Sulla base della composizione indicata dallo specialista si fa uno studio di stabilità, in cui si cerca la miscela di amminoacidi, glucosio e elettroliti che allo stesso tempo abbia la composizione più simile possibile a quella desiderata ma sia anche sufficientemente stabile nel tempo. Una volta ottenuta andiamo avanti con il processo di produzione, per cui la farmacista verifica che il prodotto sia conforme, sia stabile, stabilisce i requisiti di produzione e i criteri di aggiunta della miscela e passa alla produzione vera e propria".

Una volta iniziata la produzione ogni singolo passaggio viene monitorato, con le analisi che non vengono fatte 'a campione' ma riguardano la totaltà dei lotti creati. "I controlli che vengono fatti sono di processo, per cui il nostro lavoro viene monitorato in ogni istante anche con telecamere, e poi c'è il controllo finale su ogni prodotto, che comunque certifica e garantisce il requisito di sterilità sulla base del contenuto particellare e dell'assenza di endotossine. I controlli biologici sul prodotto finale sono fatti al 100% su tutte le unità prodotte che vengono testate all'interno dei nostri laboratori, ogni passaggio è certificato e il rilascio viene fatto solo dopo l'analisi del prodotto". Le sacche sono considerate 'a metà' tra un prodotto farmaceutico vero e proprio e una formulazione galenica, come quelle che è possibile ottenere in farmacia 'artigianalmente'.

 Missioni possibili

Non c'è sciopero, alluvione, nevicata che tenga. La sacca deve arrivare a destinazione dal paziente a qualsiasi costo, e per poterla portare c'è bisogno qualche volta di un esercizio di creatività. Sulla carta sembra semplice: una volta prodotte le sacche e verificata la loro sterilità a 15 giorni dalla produzione vengono spedite a casa del paziente. C'è però la complicazione che la sacca può essere stoccata solo per 90 giorni, e quindi il paziente ha bisogno di spedizioni periodiche e non può fare la 'scorta'. A questo si aggiungono eventuali imprevisti, che vanno da una rottura del frigo a uno sciopero dei trasportatori.

"Sono successi episodi particolari che sicuramente hanno messo alla prova la volontà un po' di tutti di cercare di gestire al meglio la vita di un paziente - spiega la responsabile dei nuovi prodotti messi a punto nello stabilimento toscano -. C'è stata ad esempio una occasione in cui durante uno sciopero degli autotrasportatori il camion con le sacche non riusciva a passare, avevano addirittura tagliato le gomme, ma siamo riusciti con l'aiuto delle forze dell'ordine a recapitare le sacche al paziente. Altre volte abbiamo esaudito richieste dei pazienti, come quella di un bambino di andare in Canada per conoscere il paese dei nonni e vederli per la prima volta. Questo è stato un lavoro di gruppo che ha messo in moto tutta la macchina e ha permesso di fare delle consegne quasi impossibili, è stato un lavoro dettato dalla forza di volontà dei singoli e delle persone che lavorano qui dentro. Gli episodi sono tantissimi, una volta abbiamo mandato una paziente in età scolare in gita scolastica in Francia, anche se la scuola non voleva. Anche in questo caso è stato tutto il team che con grande impegno ha reso il più normale possibile la vita di una ragazza che ha una patologia".

"Nelle emergenze credo che venga fuori il meglio di ciascuno di noi - conferma un'operatrice del Customer Service -, ci sono state alluvioni e consegne fatte con l'aiuto delle forze dell'ordine. La vacanza ormai invece non è un eveno straordinario, la gestiamo normalmente se è all'interno dell'Italia, anche se ci capita qualche volta che ci richiedano consegne in posti remoti". Molto spesso oltre che con i piccoli pazienti bisogna 'lavorare' anche con i genitori. "In particolare mi ricordo quando mi occupavo di produzione - continua la responsabile -, c'era un contatto diretto con i familiari che mi creava ansia da una parte, ma che dall'altra m dava quello stimolo a lavorare sfidando il tempo e cercando ad esempio di consegnare in periodi impensabili. Mi ricordo un episodio quando io ero mamma da poco, era arrivata la richiesta di una signora che desiderava portare a casa il bambino in prossimità del Natale. Non so come abbia avuto accesso diretto al numero delle farmaciste, ma questa cosa mi ha coinvolta e abbiamo fatto l'impossibile per produrre e consegnare in tempo quanto necessario per mandare il bambino a casa".


Come tutto è cominciato

Glucosio, amminoacidi, lipidi, vitamine, sali minerali ed acqua: sono questi gli ingredienti della sacca che alimenta persone con insufficienza intestinale uniti e miscelati in modo sterile e stabile. “Questo richiede ambiente di miscelazione che mantenga la sterilità del prodotto che andrà poi a finire nelle sacche. E’ una produzione che necessita un sistema di qualità che garantisca la riproducibilità con le stesse caratteristiche. Il concetto di convalida di tutte le apparecchiature necessarie alla miscelazione era già avanzato trenta anni fa. Fin dall’esordio della sua attività di produzione abbiamo sempre garantito qualità e stabilità delle preziose sacche che alimentano migliaia di persone in Italia”. A spiegarlo è la responsabile Baxter per il Compounding Quality, ossia delle miscele contenute nelle sacche. Dell’azienda è una ‘veterana’.

“Bombardai di cv e riuscii a farmi assumere nonostante fossi donna, all'epoca nel settore era molto difficile. Iniziai appena laureata nel 1984, come farmacista responsabile del settore compoundig ovvero della miscelazione del prodotto delle sacche per la nutrizione. Ma quando i volumi erano così bassi ci si occupava un po’ di tutto. All'epoca, quando siamo partiti, avevamo solo un paziente, un autista, una farmacista e un'infermiera. Quindi mi occupavo di approvvigionamento dei materiali, magazzino, stoccaggio, miscelazione, definizione della stabilità dei prodotti, ricerca e sviluppo, nonché magazzino preparazione pacco e anche contact center. E una delle cose più mi è rimasta impressa è i rapporto con i pazienti, il fatto di contattarli ogni 15 giorni per capire di cosa avevano bisogno, per avere un feedback”.

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Una storia lunga trent'anni

Stabilimento farmaceutico Baxter
Stabilimento farmaceutico Baxter - RIPRODUZIONE RISERVATA

La nutrizione parenterale domiciliare in Italia nasce 30 anni fa, nel 1984. Il professor Francavilla racconta come è nata questa storia e come nel corso del tempo si è sviluppata fino ad essere, oggi, la base sulla quale poter concepire un modello diagnostico assitenziale che segue il paziente dall’ospedale al territorio, lungo tutto il percorso di cura.

La storia della nutrizione parenterale domiciliare in Italia parte da Bari, e a portarla è stato Antonio Francavilla, che 30 anni fa si divideva tra la Puglia e Pittsburgh. Prima dell'arrivo del 'filo per la vita', ricorda l'esperto, i pazienti erano condannati a passare più tempo in ospedale che a casa, ma poi tutto è cambiato.

"La storia della nutrizione parenterale domiciliare in Italia coincide con quella di un signore di Bari, che a 51 anni fu operato ed ebbe una colectomia totale - racconta Francavilla -, seguita da 21 sedute di cobaltoterapia. L'anno successivo, il 1984, si ricoverò per diarrea ingravescente, subocclusione intestinale e diagnosi finale di colite attinica, una malattia che non guarisce conseguenza delle radiazioni. Io ero negli Stati Uniti in quel periodo, facevo 15 giorni in Italia e 15 a Pittsburgh, e ne discussi con il capo del dipartimento di nutrizione che si interessò al caso e ricoverò il paziente, che imparò in quella sede le tecniche per la corretta esecuzione della nutrizione domiciliare. Il paziente ha battuto tutti i record, è riuscito a rimanere per 16 anni con la Npd ricorrendo solo due volte alla sostituzione e non per infezione ma per la rottura del catetere. Lo ricordo bene, era une persona sempre positiva nonostante i problemi. In quel momento anche in Italia si cominciò a parlare di questa possibilità, e l'azienda iniziò a collaborare con noi, in particolare il dottor Ivancich che ha mostrato grande collaborazione. Prima si faceva un po' di alimentazione orale, un po' parenterale, ma comunque il paziente stava più all'ospedale che a casa, esattamente il contrario di ciò che accade ora".

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La testimonianza di Susan

La testimonianza di Susan

La nutrizione è necessaria come la dialisi

Antonella De Francesco, Resp. reparto di Dietetica e Nutrizione Clinica – Ospedale MolinetteTorino
Antonella De Francesco, Resp. reparto di Dietetica e Nutrizione Clinica – Ospedale MolinetteTorino - RIPRODUZIONE RISERVATA

Se un paziente ha i reni che non funzionano più bene, o il cuore che non va come dovrebbe, il sistema Sanitario Nazionale garantisce la dialisi, i farmaci e gli altri dispositivi indispensabili per poter sopravvivere, e il percorso tra la diagnosi e la terapia è ben definito e conosciuto. Diverso è per i pazienti a cui a non funziona l'intestino e la cui 'dialisi' è la nutrizione parenterale domiciliare, che in più del 60% dei casi va fatta per tutta la vita. Secondo alcune associazioni il rischio concreto è la sottovalutazione del problema, cui si somma una carenza normativa e di risorse.

L'Italia delle eccellenze però non manca di dimostrarsi tale.

Fra queste c'e' il Centro Regionale di Riferimento per l'Insufficienza Intestinale Cronica Benigna del Policlinico Sant'Orsola di Bologna, guidato dal professor Loris Pironi, unico centro italiano riconosciuto come tale, molto conosciuto sia ai medici, che contattano la struttura per inviare  pazienti, sia ai pazienti stessi ed ai loro famigliari. 

Uno degli esempi 'virtuosi' ad esempio si trova in Piemonte, una delle prime Regioni ad organizzare la nutrizione artificiale domiciliare (la prima Legge Sperimentale risale al 1985), con normative all’avanguardia, ancora di riferimento a livello nazionale. La gestione clinico - nutrizionale piemontese è stata attribuita ai Centri specialistici autorizzati (Strutture di Dietetica e Nutrizione Clinica), in costante contatto con l’ASL di residenza, incaricata della gestione delle apparecchiature e dei prodotti, il Medico di Medicina Generale ed il Servizio Infermieristico Territoriale. La Rete di Dietetica e Nutrizione Clinica è attualmente costituita da 13 Strutture per adulti e 2 per pazienti pediatrici ed assicura l’accesso alle cure su tutto il territorio regionale. Persino qui, dove pure l'assistenza è all'avanguardia, spiega però Antonella De Francesco, che dirige la struttura complessa di Dietetica e Nutrizione Clinica della Città della Salute, non sempre tutto va per il verso giusto, e i pazienti non vengono inviati dal nutrizionista quando ne avrebbero bisogno.

"I nutrienti sono una sostituzione delle funzioni intestinali, così come la dialisi lo è per quelle dei reni, anche perchè il trapianto dei reni si è evoluto mentre quello dell'intestino no, ancora non dà le stesse sicurezze. I problemi sono ancora molti. Ad esempio non c'è una normativa nazionale, l'insufficienza intestinale è una patologia riconosciuta come rara in Piemonte, ma non dappertutto, e questo implica che i farmaci necessari non sono rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale. Questi pazienti hanno bisogno di una terapia antidiarroica importante, che può diventare costosa se devono sobbarcarsela, anche perché deve essere seguita per anni. Un altro problema che riguarda tutto il territorio nazionale è che c'è una scarsa definizione del trattamento dell'insufficienza intestinale, pochi medici e chirurghi si rendono conto di questo problema e magari dimettono il paziente prima di farlo passare dal servizio di dietetica. Questo vuol dire che la persona è destinata a tornare in ospedale, magari passando per il pronto soccorso per un'emergenza, mentre bisognerebbe capire che, come per il diabete, serve la prescrizione della dialisi per l'insufficienza intestinale serve una nutrizione specifica, e questa dovebbe essere materia di insegnamento all'università, mentre i corsi di medicina non affrontano l'argomento".

Se seguita da personale esperto la nutrizione parenterale non impedisce una vita normale ai pazienti, che possono anche sedersi a tavola con le altre persone. "Nel 70-80% dei casi il paziente mangia normalmente - spiega De Francesco - l'alimentazione è impedita solo se ci sono ostruzioni, ma sono rarissime. Per la maggior parte dei pazienti la nutrizione è organizzata di notte, il paziente deve stare attaccato alla macchina in alcuni casi tutti i giorni, altre volte solo alcuni, da un minimo di 5-6 ore a un massimo di 14-16. Tutti i pazienti sono diversi per età, gravità e tipologia del problema, ma anche per le attività che svolgono ogni giorno e quindi per il fabbisogno. La formula da usare nelle sacche è quindi altamente personalizzata, ci sono pazienti che magari hanno bisogno di più acqua elettroliti, altri più di sostanze direttamente legate alla nutrizione. Molto dipende anche dallo stato nutrizionale del paziente quando arriva dal nutrizionista. Magari è passato molto tempo e quindi ci sono carenze anche gravi cui porre rimedio".

La formula 'personalizzata' delle sacche impone un controllo periodico continuo per adattare la formula alle esigenze del paziente. "Questo implica una continuità nel seguire la persona. In Piemonte siamo fortunati, la continuità con il territorio la facciamo noi, siamo praticamente l'unico caso sul territorio nazionale in cui la responsabilità resta del servizio ospedaliero anche una volta dimesso il paziente - spiega l'esperta -. I nostri assistiti tornano in ospedale periodicamente per i controlli e vengono monitorizzati per evitare eventuali complicanze, la composizione poi 'segue' la crescita, anche perché il paziente in alcuni casi può migliorare nel tempo".

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“Un filo tiene in vita mia figlia, quello che la nutre”

Luisa gioca a bocce
Luisa gioca a bocce - RIPRODUZIONE RISERVATA

“Potete immaginarci cosa si prova a sentirsi dire da un medico: Sua figlia dovrà nutrirsi per tutta la vita attraverso una macchina, attaccata a un filo? La nostra famiglia ne è stata devastata. Tutti ne portiamo le conseguenze, forse quella che la vive meglio è proprio Luisa, che riesce anche ad incoraggiare gli altri”. Crescere un figlio non è facile, saperlo ammalato è sempre doloroso. Quando poi arriva un ‘verdetto’ medico che gli assegna una nutrizione artificiale a vita pensi subito ‘perché proprio a me’. Lo sa bene Michela, mamma di Luisa, una bimba che oggi ha 12 anni. “Luisa è nata il 20 dicembre 2002, sanissima, dopo nove mesi di gravidanza perfetta. Siamo tornati a casa normalmente. Ma qualcosa non andava”. Un coagulo di sangue nelle feci, il ritorno in ospedale ma dagli esami nell’intestino non si riusciva a distinguere nulla. Viene messa in incubatrice, quindi operata nell’ospedale più vicino, ma l’intervento serve solo a pulirla dalla necrosi interna. Poi trasferita all’Ospedale Bambino Gesù di Roma per una nuova operazione e la diagnosi: volvolo intestinale, ovvero attorcigliamento. L’intestino viene resecato più volte perché non riesce a ripartire, l’ultima volta a nove mesi.

Ora Luisa è nutrita attraverso una pompa contenuta in uno zaino che le permette di muoversi e vivere mentre riceve i nutrienti. Sta bene, frequenta la seconda media a Spello, in Umbria, la sua passione è il canto e ha i suoi amici, ma ogni giorno, puntuale, la sera alle 6 si attacca alla pompa per tutta la notte, la mattina si alza e fa colazione con la famiglia e va a scuola. La malattia non ha diminuito la sua voglia di vivere e conoscere il mondo, tutt’altro. Per questo i genitori si sono battuti per consentirle di prendere parte, accompagnata, alla gita scolastica. Fino a qualche decennio fa l’idea di fare una gita di classe non sarebbe stato possibile per lei, oggi la strumentazione per l’alimentazione lo consente: è portatile, uno zainetto come tanti. “La nostra vita è cambiata in tutto: vacanze, scuola, attività quotidiane. Cose che prima facevi spensieratamente ora ci pensi due volte prima di farle”, spiega Michela, “ma Luisa affronta benissimo la sua malattia. E’ allegra, vivace, spontanea”.


Anche quando è stata di nuovo ricoverata a fine settembre 2015 all’Ospedale Bambino Gesù di Roma per un improvviso peggioramento delle sue condizioni. Lungi dal farsi abbattere, come sarebbe stato prevedibile, è diventata l’animatrice del reparto pediatrico. “Amici per la pompa” è il nome del gruppo WhatsApp che ha creato per incoraggiare e mettere in rete altri bimbi che hanno il suo stesso problema ma non la sua serenità nell’affrontarlo. “Abbiamo deciso di fare questo gruppo – spiega Luisa - per raccontarci i nostri problemi e anche per confrontarci. È nato tutto per gioco in un corridoio dell'ospedale perché incontrando Alessio ci siamo confrontati con i nostri tubi, su chi ne aveva di più e chi meno, come quando collezioni le figurine. Ci siamo divertiti perché ci siamo trovati in tre in stanza e quando passava la visita facevamo le scommesse per chi si toglieva i tubi prima”.

Che Luisa sia una bimba speciale è stato riconosciuto anche dal Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano che, nel 2012, l’ha nominata ‘Alfiere della Repubblica’, su segnalazione della sua scuola. Questa la motivazione: “affronta quotidianamente grandi difficoltà ed è tuttavia capace di sorridere e amare sempre. E’ ben disposta nei confronti degli altri, è sempre pronta ad aiutare il prossimo, ponendosi inconsciamente come modello di comportamento positivo: prima le necessità dell’altro, poi le proprie”.

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“Nostro figlio ci ha cambiati in meglio”

Tommaso all'età di otto mesi
Tommaso all 'età di otto mesi - RIPRODUZIONE RISERVATA

“Tommaso ha cambiato la nostra vita, ma in meglio come persone”. Non hanno dubbi i genitori di Tommaso, tre anni e un intestino troppo corto per potersi alimentare come i suoi coetanei. E’ nato a 37 settimane con taglio cesareo, ma non riusciva a produrre meconio. A tre giorni dalla nascita venne trasferito in terapia intensiva. La causa del problema però non furono identificate subito, ricorda la mamma, Alessandra. “Mi ero tirata il latte per tutto il mese, per poterglielo dare una volta che fosse uscito dalla terapia intensiva, ma i medici mi comunicarono era stato inutile. Tommy sarebbe stato nutrito solo con nutrizione artificiale. Non poteva ingerire nulla. Potete immaginare cosa significhi per una mamma non avere il bimbo appena nato vicino, non poterlo toccare e, per giunta, venire a sapere che non potrà neanche allattarlo”.

Solo un mese dopo i medici comunicarono alla famiglia la dura diagnosi, morbo di Hirschprung. E ancora neonato venne operato per inserire il catetere attraverso cui si sarebbe dovuto nutrire. Non il seno della mamma, Alessandra, ma un tubo di plastica lo teneva in vita. “Il reparto di chirurgia pediatrica di Padova era diventata la mia seconda casa. Ci restavo per tutta la settimana per stare a fianco a mio figlio mentre mio marito restava a casa con l’altra nostra bimba, che aveva 4 anni e stava iniziando proprio in quel periodo la scuola materna. Il finesettimana ci davamo il cambio. Ero una mamma divisa tra due figli, ero disperata”.

Sono passati ora quattro anni, tante operazioni e altrettanti ricoveri. Adesso hanno tutti imparato ad essere felici, nonostante le difficoltà. Vivono a Romano d’Ezzelino, un paese vicino Bassano del Grappa. Tommaso fa nutrizione parenterale sette giorni su sette. Appena usciti dall’ospedale ne aveva bisogno ventitré ore al giorno, praticamente in modo continuativo. Oggi solo undici. “Fortunatamente - racconta la mamma - la pompa che eroga la nutrizione è portatile, racchiusa in uno zainetto, uno zainetto che gli consente di vivere. Non può ancora tenerselo sulle spalle, perché pesa tre chili e le sue ossa sono ancora immature, ma quando usciamo e andiamo a mangiare una pizza, lo aiutiamo noi genitori. Se invece deve nutrirsi di sera, a casa, a volte anche la sorellina lo aiuta se deve spostarsi dal soggiorno alla camera da letto. Ancora non può fare a meno di noi”. Ha iniziato la materna lo scorso anno e ama stare con altri bimbi. Agile e precoce nel movimento, il catetere non lo ostacola nelle sue ‘performance sportive’: ama andare in bici e sui pattini in linea. “Per bocca mangia poco o nulla. Nonostante questo – sottolinea la mamma - cresce, è in forze, ha uno sviluppo normale”. E non teme il pericolo: da grande vuole fare il pompiere.

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"Non si risparmi sulla salute dei nostri figli"

Davide Vicari
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Ad oggi in Italia il percorso diagnostico terapeutico assistenziale per questi pazienti soffre della diversità regionale, decretando di fatto una situazione a macchia di leopardo in cui non viene garantito lo stesso servizio tra regione e regione. La prima a legiferare in materia, 30 anni fa, è stata il Piemonte con una legge specifica nella gestione del paziente domiciliare in nutrizione parenterale. Ancora oggi un esempio di eccellenza messo in pratica dal centro di riferimento regionale dell’ospedale Le Molinette di Torino.

Un esempio virtuoso è rappresentato certamente anche dalla Toscana che, con la legge regionale 580 del 2010, per la prima volta in Italia, ha avviato un innovativo percorso di governo clinico per la nutrizione parenterale domiciliare rivolta a queste tipologie di pazienti. L’obiettivo che si pone l’associazione dei pazienti è di ottenere una raccomandazione dal Ministero della Salute per standardizzare l’assistenza e la cura.


"Ogni regione fa quel che vuole"
Scarsa qualità dei materiali e dei contenuti delle sacche o processi di produzione che non ne garantiscono la sterilità. E, ancora, imperizia nell'assistenza infermieristica, ritardi nelle consegne delle forniture, difficoltà a contattare il call center in caso di difficoltà. Sono problemi che i pazienti alimentati attraverso nutrizione parenterale si trovano, non raramente, a dover fronteggiare. All’origine, la mancanza di linee guida nazionali per le delibere delle gare di appalto per la fornitura di materiali e assistenza, la cui qualità determina in modo diretta anche la qualità di vita delle persone, ma che varia da regione a regione e, in alcuni casi, addirittura da quartiere a quartiere della stessa città, a seconda delle asl di competenza. “Nelle gare che vengono predisposte per le forniture, alcune regioni mettono al primo posto la qualità, altre fanno valutazioni solo in base al prezzo. Una scelta non lungimirante perché un risparmio momentaneo rischia di tradursi in disagi per i pazienti e può anche rivelarsi dannoso per la salute, quindi tradursi, alla lunga, anche in una spesa maggiore”, commenta Sergio Felicioni, presidente di 'Un Filo per la Vita’.

“Quello che chiediamo da anni - prosegue - è avere una raccomandazione ministeriale specifica per avere regole univoche, che possano aiutare le regioni a rendere omogeneo il sevizio su tutto il territorio italiano”. Differente qualità del ‘cibo’ contenuto nelle sacche per la nutrizione parenterale e diversa qualità dell’assistenza infermieristica, ovvero da parte di chi la sacca deve insegnare a somministrarla: “ogni asl viaggia per conto proprio e la conseguenza è una importante difformità di trattamento tra i pazienti. La nutrizione parenterale in alcune regioni non è neppure erogata in convenzione. Abbiamo famiglie costrette a migrare per veder riconosciuti i diritti. Non solo da una regione all’altra, ma anche da un’ asl all’all’altra, all’interno della stessa città”.

La mancanza di una normativa nazionale in merito alla nutrizione parenterale mette questa delicata prestazione sanitaria, che è, di fatto, un vero e proprio medicinale salvavita, in balia delle diverse scelte regionali e delle diverse amministrazioni. Mancano, inoltre, delibere specifiche regionali: unica eccezione è la Toscana dove, nel 2010, grazie alla legge 580, per la prima volta in Italia è stato avviato un percorso di governo clinico per la nutrizione parenterale domiciliare in grado di garantire cure di qualità, sicurezza e sostenibilità. “La 580 – ha spiegato, in occasione del 10/imo Forum sul Risk Management in Sanità Riccardo Tartaglia, responsabile del Centro gestione rischio clinico (Grc) della Regione Toscana – predispone un percorso che abbraccia il paziente già dal momento della dimissione ospedaliera, fino all’arrivo a casa ed in tutte le fasi del sua malattia. Il percorso può essere sostenibile perché tende a minimizzare i vuoti assistenziali, i punti di rischio, le criticità insite in un modello frazionato”. Prevede una figura di raccordo che unisce ospedale e territorio e ha, fra i punti qualificanti, sottolinea, “la presa in carico del paziente prima della sua dimissione ospedaliera, le forniture al suo domicilio di materiale ancillare, di sacche nutrizionali personalizzate garantite da test di sterilità, conta particellare e di endotossine su ogni singola sacca; l’assistenza da parte di infermieri specializzati nella gestione di un catetere venoso centrale”.

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Tatuaggi e ricerca per aiutare i bimbi

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null - RIPRODUZIONE RISERVATA

Due giovani con qualche piercing e le braccia coperte di tatuaggi, tanti e di diversi colori: a ognuno è legata un’esperienza, un’emozione, un ricordo. Non capita spesso di vederne tra le austere mura di un Ospedale e Centro di ricerca. Sembrano sentirsi a loro agio, invece, nel reparto di gastroenterologia dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Ci vengono spesso Sara e Riccardo negli ultimi tre anni a questa parte, perché qui è ricoverato il loro bimbo Noah, a causa di una insufficienza intestinale cronica. Tre anni appena compiuti ha un intestino cortissimo per via di una ischemia del flusso sanguigno intestinale, seguita da una resezione. A provocarla una cardiopatia dovuta a difetto intraventricolare a 20 giorni dalla nascita.

Da allora sopravvive grazie ad una pompa che gli somministra nutrienti direttamente nel sangue. Per alimentarsi ha bisogno di un catetere attraverso il quale i nutrienti arrivano direttamente in vena perché il suo intestino misura solo 25 centimetri, quello dei suoi coetanei tra i 4 e i 5 metri. Ma la sua storia, in Umbria, è ormai famosa, perché così piccolo è già finito sulle pagine di tanti giornali. Merito dei suoi genitori che sono riusciti a trasformare ‘il veleno in medicina’ e, a partire dall’insolito connubio tra tatuaggi e ricerca, hanno fondato l’associazione ‘Tattoo for Life’, lanciando nel 2014 la prima convention di tatuatori in Umbria. Lo scopo, quello di destinare fondi alla ricerca.

“Abbiamo lanciato la Terni Tattoo convention nel 2014, patrocinata anche dal Comune. La manifestazione ha richiamato 2800 visitatori da tutta Italia e 35 tatuatori professionisti. E’ stato un tale successo enorme che abbiamo bissato anche nel 2015, con una seconda edizione in cui partecipanti sono saliti a 4000 e i tatuatori a 60”, spiega Sara Ligobbi, mamma di Noah. Il ricavato dai biglietti di ingresso, complessivamente ben 40.000 euro, è stato devoluto al Bambino Gesù, per sovvenzionare ricerca medico-scientifica sulla sindrome da intestino corto e la conseguente insufficienza intestinale cronica che ne deriva, sia dal punto di vista della nutrizione che della chirurgia. Mascotte dell’iniziativa, neanche a dirlo, il piccolo Noah. Ma la coppia di Terni non si ferma, e già lavora all’edizione 2016, che mira ad estendere aldilà dei confini nazionali, richiamando professionisti e appassionati da tutta Europa.

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Le sacche della vita

Le sacche della vita

Quando l'ospedale fa tutto in casa

Liliana Tirimbelli
Liliana Tirimbelli - RIPRODUZIONE RISERVATA

In assenza di una normativa nazionale che regoli la Nutrizione Parenterale Domiciliare ogni Regione va avanti per conto suo, alcune in modo più ‘virtuoso’ con delle leggi, altre con semplici delibere, altre ancora senza alcun provvedimento, lasciando così spazio a differenze di trattamento dei pazienti nelle singole Asl. Tra le diverse soluzioni possibili, dimostra l’esperienza dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma, c’è anche chi riesce a fare tutto ‘in casa’ garantendo la qualità dell’assistenza.

C’è chi, come Piemonte, Veneto e Molise, ha una vera e propria legge Regionale che regola la Nutrizione Parenterale Domiciliare in tutti i suoi aspetti, e chi invece come Sicilia, Sardegna, Abruzzo e Basilicata non ha nessun atto formale che metta ordine nel ‘far west’ dell’assistenza. In mezzo ci sono delibere regionali, in alcuni casi estremamente virtuose nel definire i requisiti essenziali del servizio. L’espressione ‘a macchia di leopardo’ si adatta perfettamente alla Npd, che per il momento, in attesa di una normativa nazionale, come potrebbe essere l’inserimento di questa pratica clinica nei Livelli Essenziali di Assistenza da molti auspicato, si affida soltanto alle linee guida preparate nel 2006 dal’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali. Tra le delibere più avanzate si possono citare quella della Toscana, risalente al 2010 e che proponeva un primo esempio di governo clinico ospedale-territorio, ma anche quelle emanate in Calabria e Puglia, sempre del 2010, ispirate proprio alle linee guida. Tra le Regioni ultime arrivate c’è il Lazio, il cui commissario nel 2013 ha approvato il ‘Percorso per la Nutrizione artificiale domiciliare’, un documento che prevede ad esempio che ogni Asl abbia una ‘Equipe referente’ per la nutrizione domiciliare, che agisca di concerto con le altre strutture territoriali. “Il sistema, almeno per quanto riguarda la nostra Asl, funziona abbastanza bene, non ci sono stati particolari disguidi - racconta Liliana Tirimbelli, che dirige la farmacia ospedaliera dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma, che fa parte della Asl Roma 2 -. Noi del Sant’Eugenio è dal 1987 che allestiamo sacche di nutrizione e chemioterapia per i pazienti oncoematologici, e ora siamo attrezzati per la nutrizione parenterale totale. devo dire che l’azienda ci ha aiutato molto, abbiamo un bellissimo laboratorio di galenica clinica, con una camera bianca che usiamo per le preparazioni sia dei pazienti ricoverati sia per quelli in assistenza qui che domiciliare. Riusciamo a garantire tutti gli standard di sterilità che sono fondamentali, si pensi ad esempio alle sacche per un neonato prematuro”. Una volta lasciato l’ospedale, spiega Tirimbelli, il paziente viene preso in carico dalla Asl. “Qui prepariamo sacche per una decina di pazienti di tutto il territorio della Asl - afferma l’esperta -. Abbiamo una ditta esterna che è incaricata di portare le sacche e tutti i dispositivi di cui hanno bisogno ai pazienti garantendo i requisiti necessari di qualità, a partire dalla temperatura durante il trasporto. Per imparare a utilizzare i dispositivi e per risolvere qualunque problema c’è a disposizione il centro di assistenza domiciliare, che può anche inviare del personale a casa del paziente”. L’esempio del Sant’Eugenio, sottolinea Tirimbelli, è uno dei più virtuosi. “Non tutti gli ospedali possono permettersi le attrezzature che abbiamo noi, e il rischio è che si affidino a sacche standard, già pronte, mentre quelle che vengono fatte dal farmacista ospedaliero sono personalizzate, ed è molto meglio, soprattutto per i pazienti più critici”.


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Un far west che danneggia i pazienti

guglielmi
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"Trent'anni fa quando c'era un paziente che aveva bisogno della nutrizione bisognava proporre ai responsabili delle Asl i trattamenti, che venivano poi deliberati dopo settimane, se non mesi - ricorda Guglielmi -. Ora si osserva una sanità 'polverizzata', in cui ogni capo distretto decide cosa fare, quindi si possono avere situazioni molto diverse a seconda della strada in cui uno vive. Alcuni decidono ad esempio di 'fare da soli', mettendo del personale non addestrato che non vede eventuali complicanze. Inoltre non si insegna al paziente a fare da sé, come sarebbe giusto, ma si manda sempre l'infermiere a collegarlo alla sacca, con il risultato che la persona è costretta a sottostare agli orari della Asl, con grandi perdite per la qualità della vita". 


Per cercare il massimo risparmio, sottolinea Guglielmi, spesso si hanno in realtà delle perdite. "Ci sono ripercussioni anche nelle gare, in cui spesso si cerca il massimo ribasso ma si ottengono materiali non ottimali. Noi esperti ci battiamo da 10 anni con le Regioni, abbiamo fatto commissioni e condiviso le linee guida con l'Aifa, ma ancora non c'è un criterio che possa impedire a chicchessia di farsi un protocollo da solo, magari con un risparmio che però è solo apparente se si vanno a guardare poi le conseguenze delle complicazioni, i cui costi però non sono scaricati sulla Asl ma magari sull'ospedale che ha dovuto ricoverare il paziente. Una possibile soluzione sarebbe inserire la Npd nei Livelli Essenziali di Assistenza, anche su questo abbiamo lavorato molto". 

L'equipe dove lavorava Guglielmi, sotto la guida del professor Francavilla, è stata la prima a portare la nutrizione parenterale in Italia. "Noi siamo stati i pionieri, da 30 anni ci occupiamo di nutrizione parenterale - ricorda -. Nell'84 per la prima volta abbiamo curato un paziente con le sacche, che è sopravvissuto 21 anni. L'uomo aveva un tumore del sigma, era stato sottoposto a un intervento sviluppando la sindrome da intestino corto. Nell'84 non c'erano soluzioni, portammo il paziente a Pittsburgh perché in Italia non avevamo le tecnologie, per fortuna proprio in quel periodo in Italia la Baxter stava arrivando nel nostro paese, e abbiamo iniziato a collaborare".

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“Di insufficienza intestinale si parla troppo poco”, parola di ministro

Rara ma non riconosciuta come tale, l’insufficienza intestinale cronica è "una grave malattia di cui si parla ancora troppo poco in Italia". A dirlo è il ministro della Salute Beatrice Lorenzin nel messaggio inviato in occasione del convegno "Insufficienza Intestinale Cronica Benigna: il percorso di riconoscimento come malattia rara", tenutosi alla Camera dei deputati l’11 marzo 2016. Una data importante per i pazienti che, per la prima volta, sono riusciti a portare il tema in una sede istituzionale e a porlo all’attenzione della politica.

Come si è visto dalle testimonianze raccolte, la sindrome da intestino corto comporta molti ricoveri, controlli, terapie e complicanze. A questo si aggiungono ostacoli di ordine burocratico e sociale. Riconoscere la patologia come rara consentirebbe una gestione standardizzata su tutto il territorio. Un riconoscimento "che intendiamo portare all'attenzione del gruppo interparlamentare per le malattie rare", è stato l'impegno di Paola Binetti (Ap). Posizione condivisa anche da Dorina Bianchi, deputato di Area Popolare e medico. “Ci adopereremo – spiega - affinché venga riconosciuta come malattia rara e se ne promuova la conoscenza. Solo così si potrà assicurare un trattamento clinico omogeneo per tutti i malati italiani e un maggior coordinamento tra le regioni".

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