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Russia 2016
Il 2015 è stato l’anno in cui la Russia è tornata alla ribalta sul grande scacchiere internazionale, contribuendo allo storico accordo sul programma nucleare iraniano e aprendo il “fronte siriano”. Ora, però, il crollo del petrolio rischia di far saltare i conti pubblici. E mentre il governo corre ai ripari lavorando a una spending review lacrime e sangue, a rischiare di più è il piano strategico di apertura a oriente varato dal Cremlino.
«Bisogna essere onesti, l’era del petrolio è finita e la Russia ha perso la sfida con i propri competitor». È il pomeriggio inoltrato di venerdì 15 gennaio e il Gaidar Forum - la Cernobbio russa, tanto per capirci - si avvia alla conclusione. German Gref si ferma a parlare coi giornalisti e le sue parole rotolano pesanti sui block-notes come massi. Questo cinquantenne di origine tedesca, nato in Kazakistan da una famiglia di deportati, non è un professorone qualunque, esperto di tutto ma responsabile di niente, come molti speaker del Forum. È l’amministratore delegato della Sberbank, la prima banca russa (di Stato), e già ministro allo Sviluppo Economico per 7 anni. Insieme ad Alexei Kudrin è considerato - nel bene e nel male - l’artefice della trasformazione economica della Russia dell’epoca Putin. Insomma, è un uomo del sistema - un sistema che da quando il petrolio ha iniziato la sua picchiata rischia parecchio.
L’anno nuovo ha infatti portato in dono una sfilza di numeri (negativi) da cardiopalma. «Il bilancio pubblico, così come è concepito, è sostenibile con i prezzi del petrolio a 82 dollari al barile», ha spiegato il ministro delle Finanze Anton Sliuanov. Per il 2016, invece, è stato approntato un budget d’emergenza ipotizzando un prezzo medio di 50 dollari. Peccato che l’oro nero viaggia sotto i 30. Stando così le cose, è emergenza nell’emergenza. Il Cremlino ha ordinato degli stress test tenendo presente tre scenari: inferno (25 dollari), purgatorio (35 dollari) e paradiso - si fa per dire - col prezzo del barile fisso a 45 dollari. Il che consentirebbe di considerare più o meno valido il piano attuale.
Il rublo però è in caduta libera e ha fatto segnare il minimo storico sia nei confronti dell’euro che del dollaro. L’inflazione galoppa al 12,5%. I salari scendono e la qualità della vita peggiora. I fondi di riserva (la Russia ha due fondi sovrani accumulati negli anni di vacche grasse) iniziano ad essere intaccati e se le cose non cambiano potrebbero esaurirsi nel giro di due anni. Tanto che la Banca Centrale ha raccomandato di spingere sul deficit (fino a un tetto massimo di debito pubblico del 25-30% del Pil) pur di preservarli. Ma a quali tassi?
Comunque vadano le cose, insomma, nel futuro della Russia s’intravede una sola soluzione: tagli. Pesantissimi. E il rischio non è tanto - o meglio, non solo - di ridurre al lumicino le spese correnti, andando così a erodere il tesoretto di popolarità che circonda lo “zar” Vladimir Putin (e in questo senso le proteste per la spending review sul welfare sono già iniziate). No. Ad essere in bilico è soprattutto il piano di sviluppo che il presidente ha in mente per il futuro del Paese: guardare a Oriente.
Tornando a Gref. Secondo lui la differenza, in termini di ricchezza, fra chi ce la farà a vincere la sfida dell’economia dei saperi e chi resterà confinato nella serie b dello sviluppo, quella dei paesi «downshifter», che si arrangiano, sarà «superiore a quella registrata durante la rivoluzione industriale». Ma, appunto, per il guru dell’economia russa quella sfida è ormai bella che persa. O forse no? Forse il suo grido d’allarme serve per spronare il presidente a non cedere alle sirene e a procedere dritto senza indugi sulla via della modernizzazione, persino fuori tempo massimo.
Lo zar un piano in testa ce l’ha.
Ma forse è troppo tardi.
Vladimr Putin ha un debole per Pietro il Grande. E’ cosa risaputa. Il presidente russo si è letto praticamente tutto quello che è stato scritto sullo zar che di fatto ha fondato la Russia moderna. C’è chi vede questa passione come un vizio insalubre - il rischio, insomma, è quello d’immedesimarsi fin troppo.
Eppure, a ben vedere, Putin e Pietro I hanno davvero molto in comune. Intanto di aver preso in mano il Paese in un momento di crisi (e ci fermiamo qui, l’epopea di Pietro è consegnata ai libri di storia, quella di Putin è ancora materia per i semplici cronisti). Ma soprattutto di aver immaginato un percorso. Per quanto opposto. Se lo zar Romanov ha piantato saldamente Mosca e Pietroburgo nel sistema politico-diplomatico europeo, facendo della Russia una potenza, anche culturale, del vecchio mondo, Putin ha invece gettato le basi per la più grande inversione a U della storia: l’integrazione con l’Asia. E dasvidanja, Europa.
La grande manovra inizia con il consolidare ciò che resta dell’impero sovietico, soprattutto a oriente. Così nasce l’Unione Economico Euroasiatica (EEU) - ha appena festeggiato il primo anno di vita - per legare in un trattato economico (e militare) l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakistan e il Kirghizistan. Mercato unico, libero movimento di capitali, servizi e persone, politiche comuni sull’energia e l’agricoltura e infine, al termine del percorso, forse pure una moneta comune.
Suona familiare? Bè, lo è. È la contromossa. La risposta - nella visione russa - a un rifiuto dell’Europa a “fare business” insieme e a sostenere invece l’alleato americano nella sua scelta d’ingrandire la Nato verso Est, facendo coincidere così l’allargamento dell’Ue a un interesse geopolitico alieno alla Russia. Che infatti stringe con i paesi dell’EEU anche un trattato militare di mutuo soccorso, una specie di patto di Varsavia 2.0.
Fosse tutto qui, si tratterebbe di ordinaria amministrazione.
Le cose iniziano a farsi molto più interessanti se si aggiunge all’equazione l’attività dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO). Fondata nel lontano 1996 come alleanza tra i paesi duri e puri dell’ex Unione Sovietica e la Cina per risolvere eventuali dispute territoriali dovute al crollo, oggi assume un significato ben più profondo. Se il futuro del mondo, infatti, sta nei blocchi contrapposti, cluster di nazioni sempre più integrate, lo SCO potrebbe divenire - il condizionale è d’obbligo - il ‘polo’ alternativo all’unione euro-atlantica.
I paesi legati dal trattato sono Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e l’Uzbekistan; ci sono poi le nazioni che hanno lo status di osservatori, ovvero Afghanistan, Bielorussia, Mongolia e Iran; quelle che ne hanno fatto richiesta, Siria e Bangladesh; e quelle che invece hanno lo status di semplici partner (Armenia, Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Sri Lanka e Turchia). Un bel pezzo di mondo. In aumento, per giunta. India e Pakistan hanno fatto richiesta di diventare membri a pieno diritto e il loro ingresso verrà formalizzato nel corso dell’anno. L’Iran potrebbe aggiungersi presto. «Credo che, una volta rimosso l’ostacolo delle sanzioni dell’Onu, l’organizzazione rivedrà immediatamente la richiesta avanzata da Teheran di divenire un membro a tutti gli effetti», ha detto recentemente Dmitry Mezentsev, ex presidente dello SCO.
È solo l’ultimo tassello di un puzzle vastissimo dalle enormi (potenziali) ricadute geopolitiche. All’ultimo summit dei capi di governo dei paesi SCO - che si tiene di norma in inverno, mentre quello dei capi di Stato avviene d’estate - il premier russo Dmitri Medvedev ha proposto l'avvio di negoziati per creare una partnership economica basata sui principi di «uguaglianza e di mutuo interesse" tra i paesi dell'Unione Economica Euroasiatica, dello stesso SCO e l'Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico. Che poi è il pallino di Putin. Il presidente russo vede infatti in questa alleanza lo strumento per contrastare l’attivismo degli USA nel pacifico e arginare il TTP appena ratificato. E in questo senso passi avanti ci sono già. L’Indonesia, ad esempio, si è detta interessata a far parte del meccanismo di libero scambio vigente nel blocco euroasiatico.
Un'altra area giudicata come cruciale è la creazione di un sistema di trasporti unificato per i paesi aderenti allo SCO. «Le infrastrutture sono cruciali per lo sviluppo di grandi progetti d'affari", ha detto il premier russo. Musica per le orecchie dei cinesi, che vedono come investimento fondamentale per proteggere i loro interessi nazionali la creazione di una moderna via della seta attraverso l’Asia Centrale. Un nuovo ‘grande gioco’ combattuto questa volta a colpi di ferrovie, gasdotti, oleodotti e centri logistici.
Il paradiso degli ingegneri.
Tanto è vero che la Cina, per bocca del premier Li Keqiang, ha proposto la creazione di una 'free trade area' per i paesi dello SCO. «Abbiamo dato mandato - ha detto - ai ministri dell'Economia e del Commercio di elaborare misure precise per costruire un'area di libero scambio». Perché è questa la posta in palio: una grande zona libera da dazi doganali e burocrazia, ricca di infrastrutture sia hardware che software, per movimentare beni e servizi dal Pacifico alle porte dell’Europa.
Non si tratta però solo di soldi e merci. Nel commentare la pubblicazione della nuova strategia di sicurezza nazionale firmata da Vladimir Putin lo scorso 31 dicembre (quella in cui si stigmatizza la politica di espansione della Nato e il legame sempre più profondo coi paesi asiatici viene definito strategico), Pechino si è detta disponibile a spingere la partnership strategica tra Russia e Cina «a livelli più alti». «Insieme sosterremo la comunità internazionale a a sviluppare un nuovo modello di relazioni internazionali basata sulla cooperazione sostenibile così da salvaguardare la pace mondiale e la stabilità». Detto fuori dal diplomatichese: un nuovo ordine mondiale.
Ma è davvero fattibile?
Alexander Gabuev, esperto dei rapporti sino-russi del Carnagie Institute di Mosca, è scettico. «L’ambizione - dice - ad essere un polo internazionale c’è ma lo SCO è un’organizzazione essenzialmente disfunzionale, che non è riuscita a creare degli strumenti utili per lo sviluppo comune degli stati membri. E l’ingresso di India e Pakistan, due arci-nemici che non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sulle partite di cricket, la renderà ancora più caotica. Inoltre, i tentativi d’integrazione economica avanzati dalla Cina, sia nel campo dello sviluppo, delle istituzioni finanziarie o del libero scambio, sono stati bloccati dalla Russia per il timore che Pechino possa accrescere la propria influenza nell’Asia centrale, che Mosca considera di sua competenza».
A ben vedere, poi, nemmeno l’Unione Euroasiatica gode di ottima salute. «La struttura delle economie degli stati dell’EEU - continua Gabuev - è diversa per ognuno degli stati membri: se la Russia e il Kazakistan hanno punti in comune, la Bielorussia e l’Armenia sono del tutto diverse. A questo si aggiunge il fatto che molti settori dell’economia, come il petrolio e il gas naturale, sono esclusi dalla cooperazione euroasiatica: fattore molto strano, visto che la Russia è un grande produttore, e nessuno riesce a capire fino in fondo il perché di questa scelta». Il protezionismo gioca dunque ancora un ruolo di primo piano e l’opzione orientale, per quanto suggestiva, ha dei rischi. Uno su tutti: restare schiacciati dal peso del dragone cinese.
«Il rapporto fra Russia e Cina è di grande beneficio per il Paese ma la Cina è in una posizione molto più forte e ne trae i maggiori vantaggi», sottolinea Gabuev. «D’altra parte, nessuna relazione è simmetrica: se la Cina non avesse ingaggiato un dialogo con gli Stati Uniti quando era ancora l’anello debole della catena non sarebbe mai arrivata al livello di sviluppo di oggi». Mosca, insomma, dovrebbe mettere da parte il suo complesso di superiorità e - se vuole davvero puntare sull’oriente - cedere alle avances cinesi. E forse il male non viene sempre per nuocere. Se la Russia, infatti, si dibatte nella crisi delle materie prime, la Cina è alle prese con lo slowdown e la tempesta dei mercati finanziari: due debolezze che potrebbero spingere i due nemici-amici a una maggior flessibilità. Nel prossimo vertice dei capi di Stato dello SCO - in programma a Tashkent - si capirà forse quanta “ciccia” c’è davvero nei proclami di quest’anno.
Detto questo, l’accordo madre - l’architrave su cui poggia tutta la strategia orientale del Cremlino - (per adesso) procede. Il patto del gas firmato nel 2014 tra Russia e Cina - un contratto da 400 miliardi di dollari - regge e i lavori sul ramo orientale del gasdotto Power of Siberia sono iniziati. Una volta chiusi i cantieri - si parla del 2019 - circa 38 miliardi di metri cubi l’anno di gas verranno pompati verso il dragone. Molti, ma non certo abbastanza per raggiungere i volumi delle esportazioni europee (solo il Nord Stream, una volta completato il secondo troncone, ne potrà trasportare 55 miliardi di metri cubi). Per diventare davvero un’alternativa all’Europa, la Cina dovrebbe onorare fino in fondo il contratto del 2014, che prevede forniture annue fino a 68 miliardi di metri cubi l’anno. Ma in quel caso servirebbe un secondo gasdotto - la via occidentale, che passa attraverso la regione dell’Altai. Il progetto c’è, ma è al momento sospeso: Pechino si è resa conto che non ha bisogno di tutto quel gas. Medvedev, dal canto suo, si è detto sicuro che in qualche modo un’intesa si troverà e i lavori partiranno presto.
Al momento però sembra whisful thinking.
Un desiderio, niente più.
Putin, ad ogni modo, a est si dà un gran daffare anche in casa propria - ovvero in quello sterminato angolo di mondo che è l’Estremo Oriente russo. La crescita, per quanto modesta, viene proprio da qui. E il Cremlino, per sostenerla, ha appena varato un masterplan molto dettagliato. «Lo sviluppo dei territori orientali è una priorità nazionale del XXI secolo», ha detto Putin durante la conferenza stampa di fine anno.
Qui lo zar sembra fare davvero sul serio.
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Dei nove distretti amministrativi che comprendono la Federazione Russa, l’Estremo Oriente - Dalnivastochnii Federalnii Okrug - è il più vasto e il meno popolato: poco più di sei milioni di persone abitano questo enorme spicchio di mondo, giudicato da molti (e non a torto) come l’ultima vera “frontiera”.
Un pezzo di Russia - le gambe del paese, solidamente piantate in Asia - che dal crollo dell’Unione Sovietica ha visto la sua già magra popolazione contrarsi, gli standard di vita calare, e tutto questo proprio mentre i vicini di casa innestavano la quinta marcia. La Cina su tutti, ovviamente. Col dragone il rapporto è stretto - e per forza, visto i migliaia di chilometri di frontiera condivisa - non solo per una ragione geografica. Fin dai tempi dell’impero russo, infatti, la città di Harbin è stata casa per molti sudditi dello zar: qui c’era il quartier generale della società responsabile per la costruzione della Ferrovia Cinese Orientale, di fatto una continuazione della Transiberiana.
Ecco, il Far East è diventato il Far West di Putin, la regione su cui puntare per sviluppare la Russia del nuovo millennio. Un progetto che inizia a decollare davvero nel 2013, quando Alexander Galushka - giovane stella nascente della politica russa e protegé del presidente - viene nominato Ministro per l’Estremo Oriente.
«Lo sviluppo del Far East è la missione della nostra generazione, il nostro compito storico», ha detto in una recente intervista a Russiska Gazieta.
Il piano per passare dalle parole ai fatti prevedeva la creazione di distretti di sviluppo a statuto speciale a l’istituzione del porto franco di Vladivostok. E il 2015 è stato l’anno in cui le promesse sono state mantenute. «Il governo ha creato i 9 territori per lo sviluppo avanzato, ha dato a Vladivostok lo status di ‘free port’ e ha stanziato 20,5 miliardi di rubli per la creazione delle infrastrutture necessarie», dice Galushka.
Il meccanismo creato nel corso dell’anno prevede il sostegno statale a progetti giudicati compatibili con il piano di sviluppo immaginato per il distretto - così da creare un’integrazione virtuosa tra fondi pubblici e investimenti privati. Secondo il ministro, nell’anno appena trascorso sono già stati selezionati sei progetti per un controvalore di oltre 126 miliardi di rubli: lo Stato ne ha messi sul piatto 13,8 per finanziare le infrastrutture necessarie. La seconda fase prevede un altro giro di investimenti privati (365 miliardi di rubli) in altri sei progetti con un contributo pubblico di 31 miliardi. Non solo. Il 2015 è stato l’anno in cui il Fondo di Sviluppo per l’Estremo Oriente ha iniziato a funzionare mentre lo scorso 17 dicembre è stato creato il Fondo Russo-Cinese per l’agricoltura. «In tutto - assicura Galushka - solo nel primo anno sono stati investiti quasi mille miliardi di rubli, 76 iscritti al bilancio statale e 916 da capitali privati». Il che equivale a una leva di 1 a 12.
Numeri importanti ma, come tutti i numeri, aridi. Che si cela davvero dietro la corsa a oriente? Che tipo di progetti stanno sorgendo in quell’angolo sperduto di pianeta? Qualche dato lo dà la Far East Development Corporation. A Khabarovsk - la città più importante dopo Vladivostok - cinque società contano di costruire una linea di produzione di isolanti termico-acustici, un impianto metallurgico, un complesso di serre per la produzione di verdure h24, un parco industriale Avangard e un centro logistico. In Kamchatka si punta invece alla costruzione di un porto, di alcuni centri industriali ma soprattutto infrastrutture dedicate al turismo.
Detto questo, è innegabile che l’attenzione maggiore l’attragga il progetto del porto franco. Il masterplan prevede un moderno centro di produzione agricola, aree turistiche e di svago, illuminazione al led, un centro logistico, un impianto di riprocessamento di copertoni usati, macchinari a basso impatto energetico, un hotel e un complesso residenziale nel villaggio di Slavyanka. Fin qui ‘l’hardware’. Il software prevede invece gli immancabili sgravi fiscali su edifici e profitti, una zona duty-free, procedure di ispezioni doganali centralizzate, dichiarazione digitale delle merci, procedure visti semplificate ottenibili direttamente in loco e una zona franca speciale dove beni di lusso, arte e antiquariato possono essere stoccati e contemporaneamente condurre attività prevendita, incluso mostrare la merce ai potenziali clienti. Insomma, tutto ciò che di ‘smart’ può venire in mente per competere con l’Oriente e attrarre investimenti.
«I territori del distretto orientale interessano ai cinesi ma anche ai giapponesi e ai coreani», spiega ancora Galushka. Ed è normale che sia così, visto che stiamo parlando di paesi densamente popolati dove i terreni iniziano a scarseggiare o costano un occhio della testa. Però, per evitare - o quantomeno contenere - scenari a La giornata di un opričnik, il romanzo distopico in cui Vladimir Sorokin immagina una Russia che parla una lingua imbastardita dal cinese (mentre, ricordiamolo, al Cremlino vive un imperatore e un muro la separa dai suoi vicini occidentali malefici), il governo sta per varare la ‘politica dell’ettaro’. Ovvero regalare a ogni cittadino russo un ettaro di terreno nell’Estremo Oriente, partendo dai residenti del distretto. «Per la prima volta in tanti anni - conclude Galushka - è stata registrata una crescita nella popolazione orientale: se riuscissimo ad aggiungere 2-3 milioni di residenti sarebbe fantastico».
La Cina, dal canto suo, sta già investendo - attirando fra l’altro quattrini russi - per intercettare la nuova vitalità del Far East. I cantieri si sono aperti ad esempio nel distretto di Qiqihar, nel dicembre scorso, per dar vita a un grande centro di distribuzione di prodotti agricoli sia russi che cinesi. «Quando termineremo - ha detto Zhang Chunjiao, capo dell’Associazione per l’Economia Applicata della provincia di Heilongjiang - aprirà i battenti il più grande hub di distribuzione di prodotti agricoli della Cina». Il partner russo non è stato ancora rivelato ma si sa che sono stati investiti 650 milioni di yuan, da entrambi i lati della frontiera. In tutto ci vorranno tre anni. Al termine sorgerà un centro capace di movimentare 30mila tonnellate di frutta e verdura all’anno - raggiungibile entro 24 ore da e per Khabarovsk. Oltre 18 milioni di potenziali consumatori russi beneficeranno della struttura.
Se poi pomodori e zucchine non figurano molto in altro nella scala della sexyness imprenditoriale, basterà aggiungere che Mosca nel 2012 ha deciso di costruire proprio nell’Estremo Oriente, nella regione di Amur, il cosmodromo di Vostochny, oltre 700 chilometri quadrati di strutture nuove di zecca per garantire alla Russia l’accesso allo spazio profondo e ridurre la sua dipendenza dal glorioso - quanto vetusto - spazioporto di Baikonour, situato in Kazakistan. Il primo lancio sarebbe dovuto avvenire il 25 dicembre 2015 ma i lavori hanno avuto dei ritardi. La condizione dell’erario è tale da non poter garantire che i finanziamenti arrivino come promesso: dunque il lancio della prima Soyuz orientale dovrà probabilmente attendere - al momento è previsto per il prossimo 25 aprile, ma i cosmonauti non partiranno prima del 2018.
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La visione, insomma, c’è. Purtroppo per Putin, il tempo - come dicevamo - potrebbe non bastare. Secondo Gabuev, infatti, la Russia è entrata troppo tardi nel mercato energetico cinese perdendo il treno dello sviluppo a due cifre. Il grande piano per il Far East, poi, è pieno zeppo di buone intenzioni ma non fa i conti con la realtà. Ovvero che si tratta di un’area «troppo remota, priva di infrastrutture, dal capitale umano tutto sommato basso eppure molto costoso: la Hundai ha aperto una fabbrica in Siberia ma ha registrato solo perdite».
Sogni, dunque?
Non proprio. «La Siberia - sottolinea Gabuev - è ricca di risorse naturali: non solo gas e petrolio ma anche acqua e quello che viene definito il freddo naturale». Caratteristiche perfette per ospitare i mega centri dati che sostengono la digital economy: elettricità a basso costo - sostenibile, grazie all’idroenergia - e ambienti freschi (gratis) per non infastidire i processori. Un modello di sviluppo che non dispiacerebbe a Graf.
Per quanto riguarda il “muro” europeo, invece, i numeri parlano chiaro: l’interscambio commerciale con la Cina è precipitato del 27,8% nel 2015 attestandosi sui 64,2 miliardi di dollari. E qui sanzioni non ce ne sono. Una bella doccia fredda rispetto al più 6,8% del 2014 - con un turnover totale che sfiorava i 100 miliardi di dollari. La decisione di guardare a oriente, dice Neil Shearing, responsabile del settore mercati emergenti di Capital Economics, sembra dunque sempre più «errata». Questo il ragionamento. Ora che gli Stati Uniti stanno iniziando ad aumentare i tassi d’interesse, il flusso dei capitali si sta spostando verso le economie sviluppate lasciando i mercati emergenti - molti dei quali sono parecchio indebitati - senza linfa vitale.
«Per la Russia si tratta di una pessima notizia: tutte le fiches erano sulla Cina», ha detto al Moscow Times Yevgeny Nadorshin di AFK Sistema, grande conglomerato russo.
Dunque, con un 2016 che si annuncia lacrime e sangue - le previsioni di crescita sono state tagliate da +0,8% a -0,7% e secondo diversi osservatori si tratta di una prima sforbiciata che potrebbe in realtà lasciare il passo a un’altra recessione da 2-3 punti percentuali - e un oriente sempre più senza fiato, l’orgogliosa chiusura nei confronti dell’Europa rischia di trasformarsi in un poderoso boomerang.
Mosca è infatti impegnata in un costosissimo programma di ammodernamento militare e se vuole tenere fede alle promesse servono i quattrini. Tutto non si può avere. E con le entrate in caduta bisogna operare delle scelte dolorose: sulle spese sociali che portano consenso, sui progetti di sviluppo in oriente, sulle infrastrutture e persino sul programma spaziale che tanto lustro porta alla Russia nel mondo.
Ecco allora che, per fare cassa, il governo ha varato un grande piano di privatizzazioni impensabile fino a qualche anno fa e che comprende anche l’argenteria di famiglia. Ovvero gioielli come Rosneft - il colosso degli idrocarburi, in mano allo Stato per il 69,5% - o la stessa Sberbank.
«Dobbiamo essere pronti a tutto», ha detto Putin al suo governo dopo le feste.
Anche al peggio.
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