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Network terroristici nei Balcani
Due marocchini, referenti per l'Isis, scambiano informazioni dall'estero con gli aspiranti jihadisti nel nostro Paese, dove il trend di crescita del fenomeno è costante: si stimano circa 110 persone radicalizzate. Crescono i network terroristici nei Balcani. Nuove armi per gli investigatori, attraverso il via libera alle intercettazioni con i virus trojan. L'islam diviso sulla risposta al terrorismo
Arruolarne due per educarne cento. La nuova mutazione del vecchio aforisma sulla lotta armata diventa lo slogan di frontiera della guerra santa Made in Italy: due referenti dell’Isis per l’Italia sono pronti a manovrare ed arruolare decine di aspiranti jihadisti nel nostro Paese. Così il terrorismo islamista nostrano, una scena distante anni luce dalla Francia e dal Centro Europa, ha cominciato a muovere i suoi primi passi nella galassia jihadista. Se all’inizio di questa nuova stagione di sangue, nel 2015, erano state censite poco più di 90 persone radicalizzate e sospette, ora sono 110 i soggetti presi in considerazione, soprattutto nel Nord del Paese. E in un anno e mezzo sono già poco più di un centinaio i provvedimenti, tra espulsioni e arresti, effettuati dal ministero dell’Interno. Una crescita minima del numero di adepti del terrore, ma anche un ricambio costante. Che prevede nuove forme di organizzazione.
Tra i fascicoli delle Procure e i vari filoni di indagine dell’Antiterrorismo, ci sono in particolare i nomi di due marocchini. Uno è Mohamed Koraichi, 31enne magrebino che ha lavorato nel Milanese otto anni fa e dopo aver sposato un’italiana è scappato con la famiglia per combattere in Siria. Lui e la moglie sono indagati con l’articolo 270 bis per terrorismo internazionale. Sono stati certificati i suoi contatti con il 28enne kickboxer italiano di origini marocchine Abderrahim Moutaharrik, arrestato dalla polizia, che avrebbe avuto l'intenzione di compiere attentati in Vaticano e all'ambasciata di Israele a Roma. Il secondo "ambasciatore italiano" dello Stato Islamico è un altro giovane marocchino che fino a qualche anno fa ha vissuto per un po’ di tempo in Lombardia. Entrambi si trovano tra Siria e Iraq, in zone di guerra, ma hanno vissuto in Italia, e per questo scambiano informazioni con i soggetti radicalizzati nel nostro Paese. Ma se prima lo scopo era quello di offrire agli arruolati una nuova vita come foreign fighter nelle zone di guerra, ora lo scopo dichiarato sono gli attentati.
Gli occhi sono puntati anche su un 40enne algerino arrestato dalla Digos nel marzo 2016 nel Salernitano, Djamal Eddine Ouali, destinatario di un mandato di arresto europeo emesso dalle autorità del Belgio per la partecipazione ad un’organizzazione criminale che produceva documenti falsi e per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. L’uomo aveva già un mandato di cattura internazionale scaturito dalle perquisizioni effettuate in un sobborgo di Bruxelles alcuni mesi prima, dove tra centinaia di immagini erano emerse le foto e i nomi falsi usati da tre dei terroristi che avevano progettato e realizzato gli attacchi di Parigi e Bruxelles. Documenti che sarebbero stati prodotti per permettere a vari soggetti di entrare ed uscire dall’Europa indisturbati: secondo gli investigatori belgi, sarebbero stati forniti dallo stesso Ouali. Una serie di filoni di indagine, dunque, che aspettano ora di trovare un collegamento tra loro.
Non solo Africa e Medioriente. I nuovi protagonisti della scena sono anche i musulmani radicalizzati di origine balcanica. Diversi network hanno origine in Kosovo (che ha la presenza più alta di foreign fighter in rapporto alla popolazione), Bosnia e Albania, dove si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, il cosiddetto 'macellaio dei Balcani', conosciuto per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti attenzionati dalla polizia in Italia ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Guerra Santa islamica e secondo gli investigatori aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri.
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Cambia l'organizzazione, cambiano anche i modi di comunicare. E di investigare. Per quanto i social come Facebook siano ancora molto utilizzati per la propaganda, non sono ritenuti un mezzo di comunicazione sicuro dai jihadisti. Comunicare a voce su Skype è una modalità più diffusa per chi è alla ricerca di nuove leve. I più esperti, invece, utilizzano il deep web, con il download di software applicativi come Tor, un sistema per la criptazione in passato utilizzato dalle forze militari americane. Anche l’ Italia dell'antiterrorismo si attrezza: la nuova arma in mano agli investigatori è un virus malware, il già conosciuto 'Trojan', che prende il nome dal Cavallo di Troia. Si tratta di un software-spia, spesso utilizzato dagli hacker e non solo, che si auto installa su computer pc, smartphone o tablet e senza essere individuato dall’utente entra all’interno dei sistemi informatici, li 'perlustra', carpisce informazioni sensibili e permette di decrittare comunicazioni e conversazioni. Dopo essere stato stralciato da un decreto antiterrorismo del 2015, a fine luglio 2016 la commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera all’uso del trojan, consentito per indagini di antiterrorismo.
Chi indaga sa che il processo di radicalizzazione dei potenziali terroristi è variabile, nel tempo e nello spazio. Può capitare di arrivare alla convinzione di diventare un soldato della guerra santa islamica nell’arco di poco tempo e nell’ambito delle quattro mura della propria stanza, ma c’è sempre un insieme di fattori che determina queste dinamiche. Per questo gli investigatori, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti 'jihadisti autoctoni', seguono passo dopo passo alcuni soggetti, spesso assistendo alla loro radicalizzazione fino a raccogliere quegli elementi che evidenziano forme di reato. Il numero di chi pensa di compiere attentati in Italia è aumentato rispetto a quelli che decidono di lasciare il Paese per combattere in zone di guerra. Quest’ultimo fenomeno però è ancora presente, aiutato dalla figura dei facilitatori, il cui coinvolgimento in vicende o gruppi terroristici può variare. In altri casi esistono invece alcuni network, per esempio in Albania, in grado di garantire per chi vive in Italia i canali giusti per raggiungere l’Isis in Siria e Iraq.
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Il sangue sparso per l'Europa e gli scossoni internazionali non lasciano indifferenti i fedeli di Allah a sud delle Alpi, fino alla Sicilia. Il mondo arabo e quello musulmano in Italia attraversano fasi di confronto. Non sempre infatti si sovrappongono: il primo è rappresentato da 22 Paesi, il secondo da 52 . A far emergere le divisioni, che ultimamente caratterizzano il sottobosco delle comunità islamiche in Italia, sono state le polemiche sulla decisione di aderire o meno all’appello sulla partecipazione alla messa domenicale il 31 luglio nelle chiese cattoliche, dopo l’omicidio di padre Jacques Hamel nella piccola chiesa di Saint Etienne du Rouvray, in Francia. Alcuni imam e centri islamici, pochi rispetto alla maggioranza, pur lanciando appelli di fratellanza hanno evitato l'iniziativa o deciso di non aderire ufficialmente: è il caso della Grande Moschea di Roma, la più grande in Europa, finanziata dall’Arabia Saudita, con imam egiziani secondo quanto prevede la tradizione religiosa, e direttamente collegata al Centro Islamico Culturale d’Italia, che ha ai suoi vertici dirigenti del Marocco. Al centro della discussione, lo scetticismo del portavoce della Grande Moschea, Omar Camelletti, sull'iniziativa.
I laici rivendicano in generale la possibilità di una maggiore presenza all’interno del centro islamico culturale d’Italia, contro "lo strapotere marocchino", che ultimamente non sarebbe visto di buon occhio neppure dagli ambienti sauditi. La richiesta è di maggiore trasparenza sui bilanci e di poter eleggere democraticamente il presidente del Centro (quello attuale è il marocchino Abdellah Redouane), affinché non sia solo frutto di un accordo tra le ambasciate egiziana, saudita e marocchina. "Non ho approvato la posizione ambigua della Grande Moschea sulla vicenda degli islamici in chiesa – spiega Foad Aodi, presidente della Comai (Comunità del mondo arabo in Italia) -. Inoltre bisogna capire quali sono i motivi per cui tanti arabi musulmani non frequentano la Grande Moschea". Dalla Grande Moschea hanno invece fatto sapere che i bilanci sono depositati e c’è un'assemblea di soci che elegge il presidente. Lo Statuto dell’organizzazione è depositato presso il Ministero degli Interni con un’assemblea di soci composta da cittadini italiani e alcuni posti spettano di diritto alle ambasciate che contribuiscono al finanziamento del Centro culturale Islamico, che riguarda per il 99% le spese correnti. "Se qualcuno vuole candidarsi come nuovo presidente – dice il portavoce della Grande Moschea, Omar Camilletti, può farlo". Lotte interne alla comunità, che intravede la bandiera nera del Califfato, in Italia nascosta tra cellulari e profili social.
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