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Viaggio in un Paese senza figli, la solitudine delle madri
Oggi fare figli è considerato un gesto individuale delle madri che agli occhi della società devono essere multitasking e perfette ma che nella realtà sono lasciate sole. La nascita di un figlio come può trasformarsi nel buio? Un viaggio nella maternità in Italia, dove la natalità è al minimo storico
La solitudine della maternità è una novità della nostra società. In passato le donne - sia quelle che non avevano risorse economiche, ma che vivevano in grandi famiglie patriarcali, sia quelle benestanti che avevano personale in casa – non curavano ininterrottamente i propri figli, ricorda Elisabetta Canitano, ginecologa da anni attiva nel sociale, fondatrice a Roma dell’associazione Vita di Donna e cofondatrice dello sportello La Casa accoglie, presso la Casa internazionale delle Donne. Le madri un tempo tenevano i bambini limitatamente al periodo dell’allattamento e in alcuni casi nemmeno: i neonati potevano essere mandati in casa delle balie, le mamme di latte. C’era poi un sapere condiviso: ad allattare, per esempio, si imparava in casa, di generazione in generazione. Non c’erano manuali o tutorial, non c’era neanche la solitudine di una madre nella clausura di quattro mura.
C’è una cosa terribile da accettare. Sophie Marinopoulos, psicoanalista francese, nel libro “Nell’intimo delle madri. Luci e ombre della maternità”, usa queste parole dissacranti: “L’amore materno non è mai solo amore, perché ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio”. Il filosofo e sociologo Umberto Galimberti, citando il volume della psicoanalista, rompe il tabù della sacralità della maternità.
Nella donna, più che nell’uomo, spiega il filosofo, “si dibattono due soggettività antitetiche: una dice ‘io’ e una fa sentire la donna ‘depositaria della specie’. Questo conflitto è alla base dell’amore ma anche dell’odio materno, perché - ricorda Sophie Marinopoulos - ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio”.
Tutto questo è oggi amplificato dalla trasformazione della famiglia: isolata e nucleare, è l’ambiente ideale dove si annida la disperazione, scrive Galimberti, perché nella solitudine ogni problema, che potrebbe essere relativizzato nel confronto con gli altri, viene ingigantito e creduto ingestibile perché non c’è termine di confronto.
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In Italia il congedo di maternità obbligatorio per la donna è di cinque mesi; il congedo di paternità obbligatorio dura solo 10 giorni, meno che in altri Paesi europei (in Svezia 480 giorni di congedo distribuiti tra padre e madre, peggio di noi solo la Grecia, due giorni per il padre). La letteratura scientifica, tuttavia, è concorde nell’affermare che i primi mille giorni di vita, dal concepimento ai due anni, siano fondamentali per il modo in cui si starà al mondo da grandi. È qui che comincia la salute mentale dell’individuo: un trauma o una depressione già in gravidanza possono avere delle ricadute sullo sviluppo del nascituro.
Poiché i figli oggi si fanno anche molto tardi, spesso viene meno anche il welfare sostitutivo rappresentato dai nonni, se si ha la fortuna di averli (e di averli vicini), perché sono spesso anziani e non possono seguire i nipoti. In Italia la natalità è al minimo storico, eppure molte donne vorrebbero fare figli e dovrebbe essere concesso loro senza che questo interferisca con una realizzazione personale. “La riproduzione della specie deve diventare il gesto di una comunità. Altrimenti costruiamo una società terribile in cui la cosa che si dice di frequente a scuola è: “La madre non lo segue”. Senza pensare che una madre può non seguire un bambino perché lavora o perché non ce la fa. Allora diventa una gara alla madre migliore”, racconta Canitano.
E c’è anche pressione sui padri, perché facciano l’altra parte. “Non voglio dire che non sia giusto – spiega l’esperta - ma ci sono anche padri che lavorano tantissimo o che non sono predisposti dal loro background affettivo. Ecco allora che la genitorialità oggi deve essere una responsabilità di una società che si deve sostituire a quello che era il welfare patriarcale”. Servono, secondo l’esperta, non solo asili nido e baby sitter ma anche spazi condivisi come all’estero dove anche un familiare può recarsi e trovare altri nonni e genitori con bimbi. Deve migliorare poi la sensibilità comune. Si sente dire spesso che le madri non vanno lasciate sole: occorre allora donare alla madre tempo e aiuto concreto, permettendole di riposarsi. E occorre un vero welfare.
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La solitudine di una madre si manifesta in un’infinità di situazioni, difficili da registrare tutte. Può nascere già in gravidanza o con il parto, in ospedale. Un altro tema di cui recentemente si è discusso riguarda il rooming in (il neonato in stanza d’ospedale dopo il parto 24 ore su 24): secondo la ginecologa Canitano “è una pratica da favorire ma senza imposizioni, con elasticità, calibrandolo anche in base alle esigenze della coppia madre-bambino”.
Quasi per tutte le neomamme la solitudine si ritrova una volta a casa dopo il parto, dove la gioia si unisce alla fatica e alla vulnerabilità del momento, mentre il partner torna a lavoro subito. In alcuni casi la solitudine può durare per i primi anni di vita dei figli e, in ogni caso, si intreccia con i mali della nostra epoca, uno di questi è il divario economico tra uomini e donne. “Lavoro da casa e seguo i bambini in tutto – racconta Roberta Pisa, mamma di due figli - perché il papà lavora anche 12 ore fuori casa e la differenza salariale tra noi fa sì che lui non possa fare altrimenti. Questo comporta che hai sulle spalle sia il ménage familiare sia l’impegno a mantenere la professionalità sul lavoro”.
Tutte le neomamme, dopo una gravidanza ipermonitorata, tornano a casa e sono stanche e sole, non sanno nulla del nuovo ruolo, mentre le attenzioni di tutti sono concentrate sul neonato. Silvia Lo Conte, mamma di una bimba di 5 anni, afferma di aver sentito “la mancanza di una figura professionale per l’allattamento, che per me è stato difficilissimo. Ero in balìa di una situazione più grande di me”. Perché allattare non è solo gioia ma anche delusione se il latte non c’è, prosciugamento di energie, dolore per ragadi e mastiti, frustrazione.
In una società fortemente giudicante, dove viene giudicata anche la scelta di non essere madre, c’è chi si trova a dover fare i conti proprio con il senso di colpa, figlio di un retaggio culturale per cui una madre deve essere sempre all’altezza del ruolo “come se fosse solo un fatto congenito; questo genera inadeguatezza e di solitudine. Vorrei trovare un equilibrio - racconta Valentina Moriconi, mamma di una bambina di 6 anni - tra la mia realizzazione e la cura di mia figlia, cercando di comprendere che se sono una madre realizzata sono una madre migliore, perché l’aiuto degli altri è un’opportunità e non un fallimento”.
La solitudine può cominciare anche in ospedale al momento del parto, come racconta Francesca Graziani, mamma di un bimbo di 5 anni. “Su mio figlio è stato applicato un protocollo per una mia sospetta epatite poi rivelatosi inutile in quanto fu poi accertato che non avevo nulla. Ho avuto una crisi, non sono stata supportata psicologicamente, per lo stress non ho avuto latte e il trauma mi ha condizionato sulla scelta di non volere altri figli”.
A rappresentare le poche famiglie numerose di oggi c’è Claudia Novelli, mamma di quattro figli, moglie di un militare dell’Esercito per mesi in missione all’estero. Ha avuto quattro esperienze diverse: se alla prima è andato tutto bene, alla seconda si è trovata, in casa da sola, con una grave depressione post-parto, un neonato e un bimbo di due anni da accudire. “Devo ringraziare mia madre che mi è stata vicina. Le donne vengono abbandonate dopo il parto e se non si ha una guida potrebbe succedere il peggio”, racconta.
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"La stanza del bambino è gravata dai fantasmi dei genitori". Selma Fraiberg
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Nel momento in cui nasce un figlio, a livello intrapsichico, la donna si confronta con l’essere stata figlia della propria madre. Esperienze difficili della propria storia infantile possono "intralciare" la relazione con il proprio figlio, rischiando di trasmettere, di generazione in generazione, eventuali fragilità relazionali. Uno studio di Lancet del 2014 titolava: “Non esiste salute senza salute mentale perinatale”. “È la radice del benessere psicofisico: se si vuole fare prevenzione bisogna intervenire precocemente, facilitando e sostenendo la relazione madre-bambino”, avvertono le psichiatre Franca Aceti e Nicoletta Giacchetti, che hanno attivato un Servizio di Psicopatologia Perinatale presso il Policlinico Umberto I di Roma.
Intervenire precocemente ridurrebbe i costi sociali derivanti dal disagio emotivo perinatale: solo negli Stati Uniti, su una stima di 4 milioni o più di nascite l’anno, superano i 362 milioni di dollari. Per questo nel 2010 è stato dato mandato alle assicurazioni americane di coprire lo screening per la depressione post-parto. I figli di genitori depressi hanno dal 5% al 70% di possibilità di sviluppare da adulti disturbi psichiatrici e sono più facilmente vittime di abusi entro i 10 anni.
Sulla depressione post-parto c'è un sommerso enorme, affermano le esperte: i dati epidemiologici indicano che tra l’8,5 e il 13% delle donne va incontro ad un episodio di depressione durante la gravidanza. Circa il 10% delle gravidanze può sfociare in un atteggiamento di rifiuto verso il figlio, con conseguenze sullo sviluppo psicofisico del bambino fino al rischio di neonaticidio o infanticidio.
Campanelli di allarme sono insonnia marcata, labilità emotiva, controllo ossessivo sul sonno e sull’alimentazione, paure eccessive. “I pediatri e i ginecologi dovrebbero essere sensibilizzati a riconoscere il problema. Spesso anche la famiglia e i partner, pur allarmati, tendono a minimizzare, perché nella società una madre in difficoltà è "contro natura". Sarebbe auspicabile che le donne si rivolgessero, andando oltre i pregiudizi, ai consultori o ai servizi dedicati”, affermano le psichiatre Aceti e Giacchetti.
Nel caso in cui emerga un disturbo clinico durante la gravidanza o nel post-parto, in Europa, negli Stati Uniti, in Australia e in altri Paesi, sono presenti le unità madri-bambino (mother-baby unit) dove la donna può essere ricoverata con il neonato, supportata da un team di specialisti. “In Italia non esistono, e le donne, quando necessario, vengono ricoverate in reparti per pazienti psichiatrici, naturalmente senza i figli, con il rischio di alimentare i vissuti di inadeguatezza della donna" affermano Aceti e Giacchetti.
C’è poi da considerare il conflitto a cui la donna oggi è più esposta, tra procreatività e professionalità. "E’ uno dei fattori che ha spostato in avanti l’età della maternità, illudendo spesso le donne che ci sia tempo per avere un figlio, nonostante l'età biologica, ricorrendo sempre più spesso alla procreazione assistita (PMA)", afferma Aceti. Così come è sempre crescente anche la tendenza di molte donne a fare figli da sole, attraverso la PMA. "Questo amplifica la solitudine – evidenzia Giacchetti - e alimenta al tempo stesso l’illusione di poter fare tutto da sola".
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"E' un'epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo". Zygmunt Bauman
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Le motivazioni che possono portare una donna all’atto estremo di uccidere il proprio figlio sono diverse. “Nella maggior parte dei casi – spiega la dottoressa Giacchetti - avviene in presenza di una grave patologia come la depressione con caratteristiche psicotiche. La donna si sente intrappolata in una relazione vissuta in modo delirante in cui prevale un vissuto di disperazione ed inadeguatezza e l'agito rimane l'unica soluzione per salvare il proprio figlio da un mondo di sofferenza. Talvolta l’uccisione del figlio si accompagna al suicidio della mamma (together forever). Gli agiti violenti si possono verificare anche in altre condizioni psicotiche, laddove il bambino viene investito da angosce persecutorie.o qualora emergano elementi dissociativi (raptus) anche in donne che apparentemente non avevano una franca patologia psichiatrica. Esiste, tuttavia, una motivazione “altruistica”, non psicotica, una sorta di eutanasia, che è determinata dalla presenza nel bambino di una grave forma di malattia, per lo più non curabile".
Ci sono poi i casi di vendetta contro il partner, la cosiddetta "sindrome di Medea": l’uccisione del figlio "avviene per procurare dolore ad un partner da cui si è stati traditi. L'agito può verificarsi anche quando il bambino è frutto di una violenza o comunque di una gravidanza non desiderata, il più delle volte di paternità incerta, in cui la donna vive angosce claustrofobiche o una profonda ostilità nei confronti del figlio", afferma Giacchetti.
In alcuni casi, tuttavia, apparentemente il bambino muore per una “semplice dimenticanza” da parte del genitore: la Forgotten Baby Syndrome (FBS) oppure per "incidente", la cosiddetta fatal battered child syndrome: il bambino muore senza che vi sia l’intenzionalità da parte del genitore che questo avvenga ma di fatto il bambino viene posto in condizioni ambientali potenzialmente pericolose che esitano nella morte".
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Chiedere aiuto è allora indispensabile. Un esempio sul campo è quello del Policlinico Umberto I a Roma, dove è aperto da oltre 15 anni un ambulatorio dedicato alla psicologia perinatale, per i disturbi correlati alla gravidanza e al post-parto, che opera in collaborazione con la neuropsichiatria infantile, la ginecologia, la pediatria, in rete con i servizi territoriali (Consultori Familiari e CSM). Oltre all'attività clinica è prevista una attività di ricerca e di formazione, raccontano le psichiatre Franca Aceti e Nicoletta Giacchetti.
Sempre a Roma, Elisabetta Canitano, ginecologa, è presidente dell’associazione Vita di Donna: con ostetriche e volontarie fa sostegno alle madri e alle donne tutte per capire di cosa possono avere bisogno in quel momento (Contatti 3663540689 - email info@vitadidonna.it). Canitano è anche fondatrice di uno sportello anch’esso gratuito, “La Casa accoglie”, presso la Casa Internazionale delle Donne a via della Lungara 19 (338 883 5105 lacasaccoglie@gmail.com) per l’ascolto di qualunque problema possa avere una donna, che sia madre o no.
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