"Nessuno di noi di Chernobyl scappò dopo l'incidente. Tutti continuavano a lavorare finché non cadevano svenuti o ammalati": a raccontarlo è Vladimir Kovcik, presidente dell'Associazione dei veterani della centrale. "Solo quando non si reggevano più in piedi gli operatori venivano trasportati in elicottero fino a Kiev, e da Kiev a Mosca, in una clinica specializzata. E lì morivano".
Vladimir ha i capelli bianchi e uno sguardo severo che spesso si scioglie improvvisamente in un sorriso. Lo incontriamo nel quartiere di Troieshchina, nella periferia nord-orientale della capitale ucraina, al pian terreno di un palazzone grigio dove c'è la sede dell'organizzazione di cui è a capo, e che difende gli interessi degli ex lavoratori della centrale di Chernobyl. Non appena si siede dietro la scrivania per iniziare l'intervista, mette subito in chiaro una cosa: "Questa tragedia è così terribile che non può essere descritta adeguatamente a parole".
Non avendo però a disposizione altri mezzi, ci prova lo stesso. "L'esplosione fu come un sospiro: pesante e lunga. Nessuno si aspettava che le conseguenze fossero così gravi". L'evacuazione di Pripjat avvenne tardi, un giorno e mezzo dopo l'incidente: "Solo il 27 aprile - ricorda - dissero alle persone di prendere rapidamente le proprie cose e lasciare la città. E la gente così, senza niente, andava via. Per un paio di giorni, dicevano. La città era deserta, dei 45.000 abitanti non era praticamente rimasto nessuno. Nella centrale restarono solo 1.200 persone su 6.000: quanto bastava a far funzionare gli altri tre reattori". A questo punto Vladimir non resiste, afferra l'elenco dei 1.200 e ci mostra il suo nome: "Eccomi, sono il 25esimo della lista", dichiara orgoglioso. Dopo l'incidente il compito di Vladimir e degli altri del suo dipartimento era quello di "raccogliere i dati rilevati dalle apparecchiature per cercare di capire la causa della catastrofe". "Già il 26 aprile - spiega - abbiamo iniziato a prendere tutti i dati del sistema amministrativo, le registrazioni, i tabulati, in modo da poterli mostrare agli esperti di Mosca e di Kiev e alla commissione speciale del governo che li doveva analizzare".
Qualche giorno dopo, il 29 aprile, "il personale rimasto fu evacuato ad appena 30 chilometri dalla centrale". Tra queste persone c'è anche Vladimir, che viene spedito in un campo per Pionieri sul fiume Vuzh. E da lì inizia a cercare il figlio, che era stato allontanato dalla zona del disastro e di cui aveva perso ogni traccia. Dopo tre giorni lo ritrovò in una cittadina non lontana, Ivankiv, e da lì lo mandò da suo fratello a Penza, in Russia, perché fosse al sicuro. "Mia moglie - ricorda - è medico, ed era a Mosca per un corso d'aggiornamento. Tornò il 5 o il 6 maggio e solo allora le ho potuto raccontare cos'era successo".