Con l'arresto in Bolivia di Cesare Battisti e la sua tanto attesa estradizione in Italia dopo quarant'anni anni i familiari di chi è stato ucciso per mano dei Proletari Armati per il comunismo è arrivato il giorno della giustizia. Anni di speranze, delusioni e impegno in una battaglia mai chiassosa ma che ha sempre puntato a fare in modo che si riaprissero una volta per tutte le porte del carcere per l'ex terrorista che da quando è riuscito a fuggire dalla Francia ha vissuto godendo di una rete di protezione non da poco. Rete che ieri è caduta.
"È fatta. Credo sia la volta buona. Forse davvero è una buona giornata. Non oso pensare che ora possa trovare un escamotage. Sarebbe da scriverci un libro", ha commentato a caldo Alberto Torregiani, il figlio di Pierluigi, il gioielliere ucciso il 16 febbraio 1979, convinto che ormai la latitanza di Battisti sia finita. Lui che durante la sparatoria rimase ferito al punto da perdere l'uso delle gambe stamane ha ammesso di dover 'metabolizzare' la notizia: "Sono talmente esausto di questa storia che adesso sono svuotato. Doveva succedere anni fa".
"Sono fiero - ha aggiunto - del lavoro fatto in famiglia, della determinazione, senza pretese ma con rispetto, con cui abbiamo chiesto giustizia. Urlare, in altre situazioni, è sembrata l'unica cosa giusta ma noi non lo abbiamo mai fatto". "Più tardi proverò sollievo e felicità - ha continuato dopo una notte insonne, quasi a presagire cosa stesse succedendo -. Adesso prendo almeno quattro caffè e mi metto a lavorare". Alberto, infatti, si sta occupando di FaPi, Fare Ambiente Piano Invalidi, movimento che punta ad abbattere le barriere architettoniche. Infatti, nel pomeriggio, quando alla scuola politica della Lega ha incontrato il ministro dell'Interno Matteo Salvini, non ha nascosto sollievo e commozione. "Penso che mio padre, Sabatini e Campagna possano finalmente riposare in pace", ha detto davanti a taccuini e microfoni. "La ferita non è ancora chiusa, sarà chiusa quando sarà determinata la carcerazione" ha concluso, precisando di chiedere al numero uno del Viminale "fermezza".