La ricostruzione è stata lenta, frutto di mille lotte e di grandi battaglie parlamentari. E poi la risposta dello Stato ha privilegiato l'aspetto assistenziale. "Avrebbe dovuto invece puntare sulla rinascita", dice Vito Bellafiore, sindaco di Santa Ninfa dal 1952 al 1983, deputato regionale e senatore del Pci, ma soprattutto protagonista con altre figure storiche come don Antonio Riboldi e Danilo Dolci degli scioperi, delle proteste e delle manifestazioni dei terremotati del Belice. Bellafiore oggi ha 88 anni, per 31 è stato presidente del comitato dei sindaci dei paesi terremotati e continua a essere un testimone attento, ma anche critico, di una tragedia infinita. Non solo ne conserva lucidamente la memoria sin dalla notte in cui i paesi della Valle vennero sconvolti dal terremoto ma ricorre alla sua lunga esperienza di amministratore per raccontare, dice, "fatti e misfatti" della ricostruzione. Lo fa anche con un libro ("Storia del Belice. Dal terremoto alla rinascita negata") in cui traccia il bilancio di un "eterno presente". Il fervore e la rabbia di quegli anni fanno capolino tra i documenti ufficiali e le tre relazioni al Parlamento che Bellafiore ha firmato tra il 1994 e il 1999.
"Questa storia - dice - è lo specchio del modo in cui lo Stato ha sempre guardato al Mezzogiorno. Nell'immediatezza del terremoto venivano offerti biglietti ferroviari per indurre la gente a lasciare la propria terra. Si sono costruite baracche sopravvissute per quarant'anni. Sono state pensate opere grandiose, e spesso inutili, prima di dare un alloggio dignitoso a chi aveva perso la casa. E i fondi per la ricostruzione sono stati insufficienti oppure erogati con il contagocce". C'è stata insomma una grande "inadempienza" ma perché, insiste Bellafiore, "la Sicilia non veniva percepita dai governi del tempo come parte della grande questione del Mezzogiorno". Nella memoria del "sindaco del Belice" riaffiorano le lotte di cinquant'anni fa quando si creò una mobilitazione popolare e politicamente trasversale per correggere i limiti della prima legge del marzo 1968. "Prevedeva - dice Bellafiore - una miseria per la ricostruzione e nulla per la rinascita. I terremotati e gli amministratori si attendarono davanti a Montecitorio. E io facevo la spola tra la piazza e gli uffici parlamentari per strappare, grazie all'articolo 59 della legge, nuovi fondi per la ripresa sociale e produttiva".
Ben diversa sarebbe invece stata, sostiene Bellafiore, l'attenzione verso i terremotati del Friuli. "Anche in questa tragedia - denuncia - abbiamo visto due Italie. A cominciare dai fondi impegnati. A parità di condizioni (stesse vittime, stessi danni), al Belice è andato un terzo delle somme destinate alla ricostruzione nel Friuli. Ma attenzione: qui non si tratta di dare l'immagine di un Mezzogiorno che piange e si lamenta.
L'intervento in Friuli è stato meritorio. Nei confronti del Belice è però mancata l'attenzione verso l'attuazione dei piani di rinascita, che erano tra gli obiettivi principali delle lotte popolari. Erano previsti 25 mila posti di lavoro. Non ne è arrivato neanche uno".
La ricostruzione ritardata e la rinascita negata avrebbero aperto la strada a una massiccia emigrazione. Bellafiore è da un lato preoccupato dal rischio della "desertificazione umana" dei paesi della Valle e dall'altro è rasserenato dai richiami di Mattarella sulla condizione del lavoro giovanile. Dai quali ricava un suo messaggio: "Senza giovani non c'è futuro e senza il Sud l'Italia cammina con una gamba sola".