Le dimissioni di Renzi aprono la crisi mille e 27 giorni dopo quella del governo Letta. Un tempo infinito per quanto veloce ha corso la stagione politica degli ultimi 3 anni. Colpisce la liturgia delle consultazioni al Quirinale, con la sfilata delle delegazioni dei 23 gruppi parlamentari. Procedure dettate dalla Costituzione e legittimate dalla prassi dei quasi 80 anni della Repubblica, ma spesso incomprensibili fuori dal palazzo. Ostico è anche il linguaggio che definisce i passaggi della crisi. Tanto da meritare un glossario.
Anzitutto, il No al referendum, seguito dalle dimissioni di Renzi, ha aperto una crisi al buio. Vuol dire senza soluzioni preordinate, non guidata da una chiara indicazione elettorale. Per questo diventa determinante, in base alla Costituzione, il compito del presidente della Repubblica. E’ la prima volta nel settennato di Sergio Mattarella, quasi due anni dopo la sua elezione del 3 febbraio 2015.
Al termine delle consultazioni, il capo dello Stato deciderà tra diverse soluzioni possibili per sciogliere in un modo o nell’altro la riserva con la quale ha accettato le dimissioni.
Può rinviare alle Camere il governo: cioè chiedere al premier uscente di ripresentarsi in Parlamento per un nuovo voto di fiducia (stessi ministri, stessa maggioranza); se dovesse ottenerlo, le sue dimissioni sarebbero respinte e il governo andrebbe avanti come se nulla fosse successo. Può assegnare un reincarico affinché lo stesso premier tenti di formare un governo bis (cioè nuovo, con ministri e maggioranza anche diversi). Può invece dare un incarico pieno ad un altro esponente politico perché tenti di formare un nuovo governo. Se giudica la situazione particolarmente complicata, può affidare anche un preincarico o dare un mandato esplorativo ad una personalità (di solito istituzionale) perché verifichi se ci sono le condizioni per formare un governo.
A sua volta, il presidente incaricato consulterà i gruppi parlamentari. Lo sbocco della crisi potrà essere un governo politico, cioè guidato da un leader politico con una
maggioranza parlamentare omogenea; un governo tecnico, guidato da un non parlamentare e composto in prevalenza da personalità della società civile; un governo del presidente, cioè affidato ad una personalità scelta dal capo dello Stato al di sopra delle indicazioni dei gruppi parlamentari; un governo istituzionale, dove il premier è una personalità già alla guida di una delle istituzioni (il presidente del Senato o della Camera, il governatore della Banca d’Italia, il presidente della Corte Costituzionale). Ai tempi della Dc fu coniato anche un altro termine per definire un esecutivo non politico, ma vicino al partito di maggioranza relativa: governo amico.
I possibili governi si distinguono anche per gli obiettivi di tempo o di programma. Il governo di scopo è quello di cui si sa in anticipo che deve realizzare uno o al massimo due punti di programma prima di rassegnare le dimissioni (ad esempio, la nuova legge elettorale); al governo elettorale si chiede solo di portare il Paese al voto sulla base della legge che c’è, gestendo l’ordinaria amministrazione durante la campagna elettorale; chi propone la formazione di un governo costituente pensa invece ad un programma di ampio respiro, che preveda la riforma di alcune parti della Costituzione.
Ai tempi della Prima Repubblica, quando una crisi si protraeva senza che si profilasse una soluzione, ci sono stati anche casi di governo balneare, definito così perché necessario a gestire gli affari correnti e approvare la legge di bilancio durante l’estate, per lasciare il passo dopo pochi mesi ad un governo politico: è il caso del primo governo Leone (22 giugno-5 novembre 1963).
Se la crisi si avvita, nella storia dei governi della Repubblica si fa ricorso a robuste dosi di fantasia istituzionale. E’ il caso dei governi di minoranza nati magari, quando era impossibile trovare una maggioranza parlamentare, con la formula della non sfiducia: un voto del Parlamento in cui i favorevoli non raggiungevano il quorum della fiducia, ma i contrari non arrivavano a quello della sfiducia. Oppure dell’appoggio esterno, quello di gruppi parlamentari che non fanno parte del governo ma, da fuori, gli consentono di sopravvivere, concedendo magari una fiducia a tempo.
Un vocabolario ricco di espressioni di altri tempi e di soluzioni estreme, al quale il presidente della Repubblica si augura certamente di non dover fare ricorso.