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23 marzo, 10:16 Photostory Primopiano

Bengasi, nel consolato italiano devastato

© ANSA
Il consolato italiano a Bengasi chiuso nel 2006 © Ansa

dell'inviata Laurence Figà-Talamanca

BENGASI (LIBIA) - Dall'esterno è un'elegante palazzina bianca a due piani in un quartiere residenziale di Bengasi, ma dentro l'ex Consolato italiano è stato devastato, saccheggiato e dato alle fiamme più volte. L'ultima lo scorso 17 febbraio, giorno della 'Rivoluzione' anti-Gheddafi e anniversario della cruenta manifestazione del 2006 che ne decretò la chiusura. Il portone dell'edificio è chiuso, davanti c'é un cartello che recita 'Allah u Akbar', ma l'ANSA è riuscita a entrare nei locali e fotografare quel che resta dell'ex sede diplomatica. I muri sono neri di fumo o privi di intonaco, con graffiti che inneggiano a Maometto e condannano Gheddafi, da una parte anche la scritta: "L'Italia è una prigione".

Per terra cumuli di sabbia portata dal vento e depositatasi in 5 anni di incuria. Ovunque porte divelte e stanze vuote, qua e là restano i segni di un'attività amministrativa come scrivanie o pezzi di armadi. Nel chiostro, quello che una volta doveva essere un giardino bellissimo è ormai un ammasso incolto di piante, con al centro una fontana rimasta a secco e quattro palme che resistono, spiccando verso l'alto nonostante le ferite subite dal fuoco. Al piano superiore un piccione morto per terra, i vetri delle finestre sono rotti ma sbarrati, negli angoli immense reti di ragnatele. Anche i sanitari dei bagni sono stati portati via. Dal tetto, invece, si gode una bella vista della città di Bengasi.

Quando tre settimane fa è scoppiata la rivolta della Cirenaica contro il regime di Gheddafi, a Bengasi si stava ricordando proprio il quinto anniversario della 'Giornata della collera'. Allora - nel 2006 -, centinaia di libici presero d'assalto il Consolato dopo che il ministro Roberto Calderoli aveva indossato in diretta tv al Tg1 una maglietta con le caricature di Maometto, che all'epoca avevano infiammato tutto il mondo islamico. Morirono 11 persone. Il giorno dopo il personale diplomatico fu evacuato e la sede venne chiusa. "Ma negli anni è stato bruciato più volte, anche il 17 febbraio scorso", racconta una famiglia che vive nel palazzo di fronte e vede il Consolato dalla finestra di casa. "Consolato non operativo" indica ancora il sito della Farnesina, ma il governo italiano pensa ora di riaprirlo. Lo ha annunciato nei giorni scorsi lo stesso ministro degli Esteri, Franco Frattini, e la diplomazia si è subito messa al lavoro con un inviato, già arrivato a Bengasi, con il compito di capire come fare. Innanzitutto, si pensa a una nuova sede. Quella in Shara Omar Ebn El Aas non è agibile, e non è certo che le autorità libiche, o meglio del Consiglio nazionale transitorio, vogliano restituirla all'Italia. In realtà già nel 2006 i libici chiesero a Roma di riaprire il Consolato per le difficoltà subito riscontrate nello svolgere attività economiche e culturali ma, soprattutto, nell'ottenere un visto passando per l'Ambasciata di Tripoli, lontana 1000 km da Bengasi. Ma oggi che la città è diventata la capitale della ribellione contro Gheddafi, l' 'operazione Consolato' diventa molto più complessa, da gestire con la massima prudenza, per tutelare la presenza italiana a Tripoli che resta il centro delle relazioni diplomatiche tra Italia e Libia. La riapertura della sede di Bengasi non rappresenta dunque ancora un riconoscimento ufficiale della 'nuova Libia', ma è di certo un segnale che l'Italia vuole esserci.

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