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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Donato Speroni
Il battello corre veloce attorno all’isola di Vågsøy per mostrarci i quattro fari che in quelle acque difficili guidano le navi fino al porto di Maloy. Oggi il mare è calmo, il sole splende come raramente accade sulla bellissima costa norvegese, ma siamo cinque gradi di latitudine sotto il circolo polare artico, il vento è fresco e noi turisti mediterranei siamo ben imbacuccati nelle nostre giacche a vento. Invece, il nostro condottiero, il biondo e roccioso Harald (il nome è di fantasia ma la storia è vera) è orgoglioso di stare a prua con una maglietta leggera.
“Sto ancor meglio a venti gradi sottozero”, dice in perfetto inglese. Studente di medicina, arrotonda nei mesi estivi facendo la guida turistica. Fino a poco tempo fa lavorava nelle isole Svalbard, nel Mar Glaciale artico, dove accompagnava i turisti in escursioni naturalistiche, in particolare a vedere gli orsi bianchi. Poi se n’è andato per due ragioni: la prima è che in estate, quando il sole non tramonta mai, anche gli orari di lavoro di fatto si allungano: “non avevo abbastanza tempo per studiare”. Ma la seconda e più importante è che “ci sono sempre meno orsi e sempre più turisti”. “Now it’s a circus”, è diventato un circo, dice con tristezza. “E andrà sempre peggio, the Artic is finished!”.
Harald è certamente un ambientalista, ma appartiene a una categoria che purtroppo sta crescendo, di quelli che non hanno più voglia di battersi perché vedono con i loro occhi gli effetti del cambiamento climatico (più che mai evidenti nell’Artico, ma anche nel nostro Mediterraneo), mentre i leader politici non riescono a mettersi d’accordo per evitare la catastrofe.
Dagli orsi polari alla polarizzazione italiana. Rientrato dal viaggio, mentre anche l’Italia soffre tutti i guai del cambiamento climatico (calore estivo eccessivo, alluvioni, tempeste di vento e grandine, piogge violente e improvvise dopo mesi di siccità), mi ha colpito l’astrattezza del dibattito politico su questi temi, rilevato del resto da molti commentatori. Un ping-pong tra chi accusa i cosiddetti Gretini (ebbene sì, anch’io mi dichiaro Gretino) di avere, se non provocato, quantomeno speculato su questa ondata di caldo anomalo, e nega (ma come si fa?) che esistano prove di un cambiamento strutturale delle condizioni del Pianeta, e chi invece vorrebbe perseguire penalmente questo tipo di negazionismo come avviene in certi Paesi per chi nega la Shoah. Posso capire l’indignazione per le sciocchezze che si leggono su certi giornali e si sentono in Tv, ma personalmente sono contrario alla creazione di nuovi delitti d'opinione).
In mezzo tra queste posizioni estreme, si trova un’articolazione di punti di vista che, come abbiamo sottolineato spesso sui nostri siti, interpretano in modo diverso gli interventi e i tempi della “transizione energetica”e l’impegno per una “transizione ecologica” che per essere “giusta” deve tener conto di tutti gli effetti sociali della decarbonizzazione. Purtroppo, è in atto un processo di polarizzazione, ben descritto dal politologo Maurizio Ferrera con un articolo sul Corriere della Sera dell’11 luglio dal titolo “Green deal: il clima e la posta in gioco”.
“Vi sono segnali”, scrive infatti il professore guardando all’Europa, ma in particolare all’Italia, “di un malumore crescente fra l’opinione pubblica. (...) La realizzazione del Green Deal non sarà una passeggiata dal punto di vista sociale e politico”. E ancora: “Com’era prevedibile, il passaggio dal «bla, bla, bla» (l’ironico slogan di Greta Thunberg) ai fatti ha subito mobilitato le categorie minacciate dal cambiamento”. Dopo una panoramica dei movimenti antigreen che si stanno affermando in Europa, Ferrera aggiunge:
È vero che l’opinione pubblica europea mostra alti livelli di informazione e sensibilità rispetto al cambiamento climatico. Vi è anche un’alta propensione ad adottare comportamenti di vita e consumo eco-responsabili. Al tempo stesso, la transizione energetica suscita forti timori circa la possibile perdita di occupazione e reddito. Molti cittadini iniziano a chiedersi: a quanta crescita e benessere dovremo rinunciare per de-carbonizzare l’economia? Siamo sicuri che il welfare pubblico continui a tutelarci? Se questi dubbi si rafforzano, il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 solleverà spinosi problemi di sostenibilità sociale e politica.
Una ricerca promossa da fondazione Lottomatica ha cercato di valutare questo rischio, sulla base di un ampio sondaggio comparato svolto dal dipartimento di Studi Sociali e Politici della Statale di Milano. Dai dati emerge innanzitutto la presenza di due gruppi con priorità diverse. Da un lato troviamo un 38% di cittadini che attribuiscono priorità alla tutela dell’ambiente rispetto alla crescita economica; dall’altro un 36% che ha preferenze opposte: prima la crescita. Solo un quarto ritiene che i due obiettivi possano essere conciliati tra loro.
Il politologo approfondisce l'analisi con altri dati per fare poi questa diagnosi:
Sembra dunque esserci in Italia un significativo potenziale di resistenza alla transizione e alle sue implicazioni. Un’analisi approfondita dei dati consente di identificare lo «zoccolo duro» di elettori più riluttanti. La ricerca lo quantifica in circa il 15%: di nuovo la percentuale più alta in Europa, superata solo da quella spagnola. Questo gruppo di elettori privilegia l’obiettivo della crescita e la conservazione del vecchio welfare, anche se ciò dovesse compromettere il raggiungimento degli obiettivi sulla neutralità climatica.
La contrapposizione fra sostenitori della sostenibilità ambientale e sostenitori del Pil corre in larga misura lungo l’asse socio-economico (livello di reddito, professione, numerosità della famiglia) e in parte lungo l’asse territoriale (Nord verso Sud). Sono i ceti più vulnerabili, soprattutto nel Mezzogiorno, a sentirsi più minacciati. I due gruppi riflettono insomma due diverse basi sociali e i loro interessi. Ciò potrebbe rendere più probabile l’emergenza nel nostro Paese di un inedito conflitto eco-sociale.
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