(di Agnese Malatesta)
Lavorare come parrucchiera in un
carcere. Per Emilia, giovane donna di Roma, mettere a frutto la
capacità di prendersi cura delle acconciature delle sue compagne
non ha solo il valore di una prestazione professionale. Ha il
senso dell'utilità e dell'opportunità di un ruolo che permette
un contatto con una normalità di azioni pur nella
straordinarietà del suo caso. Emilia è detenuta nel carcere di
Teramo; circa 400 reclusi in totale, una trentina le donne. In
realtà, nella vita 'fuori', Emilia, 33 anni, diploma di scuola
alberghiera, ha lavorato come cuoca in ospedali e scuole ma ora
è una parrucchiera. Per questo impegno riceve una 'paga',
seppure minima, compatibilmente con le scarse risorse pubbliche
destinate dallo Stato a queste attività. Ma fornisce il suo
servizio anche senza paga; lo fa per vicinanza e condivisione
con le sue compagne, perché il tempo libero sia anche uno
scambio di relazioni. Ed Emilia non è la sola.
C'è, ad esempio, chi si occupa dell'assistenza alla persona,
si prende cura di altre persone con maggiori difficoltà. In un
contesto di privazione di libertà, l'impegno in un'attività, che
rende qualche soldo, ma è anche sostegno spontaneo verso gli
altri, è speranza di vita. Ed è proprio alla vita 'fuori' che
queste donne sono concentrate. Pur con le sofferenze che questo
procura, prima fra tutte la lontananza dai propri figli.
Ne hanno parlato loro stesse, in un incontro che si è tenuto
qualche giorno fa nei locali della Casa circondariale della
cittadina abruzzese - una ventina le presenti - e dove appunto
si è colta l'esistenza di un clima di comunanza fra loro.
L'occasione è stata offerta dal Centro di cultura delle donne
Hannah Arendt che, insieme all'Università degli studi di Teramo,
ha organizzato, con l'assenso convinto della direzione del
carcere, l'incontro con le autrici di un libro ('A mano libera'
che raccoglie scritti delle detenute di Rebibbia), Paola Ortensi
e Tiziana Bartolini, direttrice della storica rivista NoiDonne.
L'incontro si è trasformato in un confronto ma anche in una
sorta di sfogo di ansie e paure. L'angoscia più forte, un dolore
di difficile controllo, è quello per i figli, lontani, che non
si possono vedere e che non tutte possono sentire
telefonicamente, e l'angoscia per una separazione forse senza
ritorno. Per molte di loro, il reato che hanno commesso è frutto
di una dipendenza affettiva, di una relazione non sana con un
uomo, che sia un compagno, un marito o un padre. "Per le donne
detenute c'è quasi sempre - dicono le autrici del libro - un
uomo che ha determinato la loro storia". Parola d'ordine per
tutte: libertà, nuova vita, riscatto.
"Voglio tornare a casa, dalla mia famiglia - dice Marisa, 50
anni di Giulianova, 5 figli - da poco ho perso mio padre e mia
sorella e non sono potuta andare ai loro funerali. Mi manca
tanto anche la mia mamma". Viene da Napoli Anna, 47 anni, 6
figli, uno morto in un incidente d'auto, che parla
spontaneamente del suo reato: "sono finita nel giro della droga.
Ho conosciuto un uomo, ho collaborato con lui. Ora i miei figli
sono in una struttura, li sento una volta la settimana. Mi sento
cambiata. Lavoro come assistente alla persona e sono contenta".
Ma le relazioni non sono facili: "Fino a poco fa - continua Anna
- mio figlio grande mi evitava, ora viene a trovarmi, quando ci
vediamo mi accarezza, mi dice non ti abbandono. Spero di poter
uscire anche per qualche ora, vorrei che mi si mettesse alla
prova". Francesca, 49 anni, ha 3 figli: "mi trovo qui per mio
marito. Sto tanto male. Ho avuto una brutta vita, niente rose e
fiori. Gli uomini ci trattano come bestie. Ora spero negli
arresti domiciliari".
Charlotte, 26 anni, è di origine nigeriana, quasi una laurea
in medicina, si sente fortunata: "ho sposato un italiano che mi
ha insegnato ad amarmi e che ora mi aspetta. Spero di uscire a
maggio".
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