Negli anni '80 piazzare le proprie iniziali in cima alla classifica di Pacman o Tetris, Arcanoid o Donkey Kong, poteva trasformarsi in motivo di vanto con i propri amici. Un fragilissimo status symbol pronto a cadere sotto i colpi del nuovo numero 1 di turno. Per spiegare quello che oggi viene definito il "fenomeno eSports" non si può non tornare indietro di una quarantina d'anni, quando quelli che oggi sono imprenditori, promotori, professionisti e animatori della scena videoludica competitiva erano bambini, o adolescenti, con la passione per Pong o Street Fighters. I tempi sono cambiati, i cabinati - oggi ricercatissimi oggetti d'arredamento o di design - sono finiti in soffitta, sostituiti dai computer prima e dalle console poi, Playstation e Xbox su tutti. La passione, però, è sempre rimasta la stessa, tramandata di generazione in generazione. Per "piazzare le proprie iniziali in cima alla classifica" non basterà più avere la meglio sull'imbattibile amico di banco ma prevalere su una schiera di giocatori provenienti da ogni parte del mondo.
Per i cosiddetti "pro-player", tutti giovanissimi, il videogioco non è più un semplice passatempo, ma un lavoro, un'attività remunerativa, con tanto di allenamenti, organizzazione, studio e disciplina. Ci sono tornei, campionati, club, squadre e team per quasi ogni gioco e quasi ogni disciplina, dai simulatori sportivi agli strategici, dagli sparatutto ai picchiaduro. Un fenomeno globale che in Italia, però, registra - stando a quanto riferiscono gli esperti - un ritardo di almeno 10 anni rispetto a realtà ormai consolidate come gli Stati Uniti o la Germania, per restare in Europa. Ma qualcosa sembra stia cambiando...
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