Nessuna marcia indietro. A nulla sono valse le arringhe difensive e le migliorie apportate ai suoi servizi, Google dovrà pagare la multa da 2,42 miliardi di euro (circa 2,8 miliardi dollari) comminata dalla Commissione europea quattro anni fa. Con una sentenza netta - ma aperta a possibilità d'appello - il Tribunale dell'Unione europea dà ragione a Bruxelles: le pratiche messe in atto da Mountain View con Google Shopping verso competitor minori specializzati in ricerche per gli acquisti sono lesive della concorrenza. E per questo vanno punite. Con un'ammenda che all'epoca rappresentava la più alta mai inflitta dalla Ue.
Il caso, uno dei tre di più alto profilo nello scontro aperto tra l'Antitrust europeo e Big G, va avanti dal 2010, dopo due denunce presentate dalle rivali TripAdvisor e Twenga. Durante un'indagine lunga e tormentata, l'azienda aveva presentato una serie di rimedi e soluzioni che però Bruxelles ha sistematicamente respinto, fino ad arrivare alla condanna nel 2017. Il motore di ricerca più grande e utilizzato al mondo - è l'accusa confermata oggi dal Tribunale - ha abusato della sua posizione di dominio in 13 Paesi europei, tra cui l'Italia, per privilegiare il suo servizio di comparazione degli acquisti nei suoi risultati, facendo praticamente scomparire i concorrenti dalle ricerche. Una condotta "illecita" per Bruxelles e attraverso la quale i giudici Ue ritengono che Google si sia "allontanata dalla concorrenza nel merito".
Mountain View ovviamente non ci sta e fa sapere che "esaminerà attentamente" il giudizio. Anche perché dal 2017 ha modificato la sua strategia per adeguarsi alle decisioni dell'Antitrust Ue e dare più spazio ai rivali. Il nuovo approccio, è la linea difensiva, "ha funzionato con successo per oltre tre anni, generando miliardi di click per oltre 700 servizi di shopping comparativo". In attesa di vedere se il colosso deciderà di appellarsi al grado di giudizio più alto della Corte Ue, il verdetto non può che fare piacere alla guardiana europea della concorrenza, Margrethe Vestager, che lo scorso anno aveva subito una clamorosa sconfitta in aula contro Apple, di cui denunciava i vantaggi fiscali in Irlanda. La nuova proposta di legge della danese per dare un giro di vite allo strapotere delle Big Tech nei mercati digitali (Dma) contiene una disposizione che vieta l'auto-preferenza dei propri prodotti e servizi. Qualora dovesse superare il vaglio del Parlamento europeo e degli Stati membri, per Mountain View i tempi non si preannunciano facili. Anche le sue attività per gli affitti delle vacanze o gli annunci di lavoro potrebbero essere in pericolo.
Allo stesso tempo, le norme Ue sui servizi digitali (Dsa) "possono essere un'opportunità per cambiare per sempre il mondo digitale, per costringere le piattaforme a innovarsi non più solamente secondo la legge del profitto e per salvare le nostre democrazie", ha auspicato Frances Haugen, la whistleblower di Facebook, arrivata a Bruxelles per testimoniare davanti alla commissione per il mercato interno del Parlamento europeo. Nei mesi scorsi Haugen aveva testimoniato davanti al Congresso americano e al parlamento britannico, accusando Facebook di diffondere odio online e disinformazione utilizzando un sistema che privilegia i contenuti che fanno più click.
La 'talpa' ha spiegato come Facebook "crei divisioni nelle comunità e indebolisca le nostre democrazie" e come questo sia noto all'interno della compagnia che però ha "deliberatamente deciso di non tenere contro delle indagini interne per continuare ad anteporre il profitto alla salute e la sicurezza delle persone". Stando ad Haugen, il problema risiede principalmente nella segretezza con cui Facebook viene amministrato che determina il fatto che "nessuno all'esterno di Facebook, neanche governi e autorità, sappiano cosa succeda realmente all'interno". Per le autorità condurre indagini interne a Facebook è impossibile, poiché "l'accesso ai dati comporterebbe la violazione del segreto di mercato - ha spiegato la whistleblower - ma ciò determina una situazione in cui Facebook è il solo giudice di se stesso e dei suoi problemi e ciò non è più sostenibile". Davanti a questo le democrazie devono fare "ciò che hanno sempre fatto quando il mercato gli sfuggiva di mano, ovvero imporre regole", ha spiegato la Haugen. "Se il Dsa verrà applicata nel modo giusto l'Europa ha il potere di cambiare le cose. Non potrei essere più grata all'Ue che ha preso sul serio questo problema, questo pacchetto legislativo può essere lo standard aureo del mondo digitale e ispirare gli altri paesi, inclusa l'America, a salvare le nostre democrazie".
Al fianco della statunitense ci sono oltre 80mila tra cittadini, attivisti, ricercatori e rappresentanti della società civile che hanno firmato una petizione per sostenere la sua azione.
"L'Europa è seriamente intenzionata a regolamentare ciò che sembra ancora un far west digitale. La velocità è tutto: abbiamo bisogno che il pacchetto" di proposte Ue per regolamentare le Big Tech "sia adottato nella prima metà del 2022", ha scandito per l'occasione il commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton. "Abbiamo visto l'impatto che le principali piattaforme possono avere sulle nostre democrazie e società, compreso il benessere dei nostri figli - ha sottolineato il francese -. Con il Digital Services Act (Dsa), ora disponiamo degli strumenti per ritenere le piattaforme responsabili della trasparenza degli algoritmi, dell'utilizzo dei dati e della mitigazione dei rischi". L'Ue, ha aggiunto, deve restare "estremamente ambiziosa" nella sua risposta. "I maggiori sforzi di lobby a cui abbiamo assistito" da parte delle Big Tech "sono vani: non permetteremo agli interessi aziendali di interferire con il maggiore interesse del popolo europeo".
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