Una ricerca svolta nel Regno Unito
da un team di ricercatori italiani e britannici ha dimostrato il
nesso tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori,
soprattutto nelle donne. Lo studio, pubblicato sulla rivista
Labour Economics, è stato condotto dai docenti di Economia
Politica Michele Belloni dell'Università di Torino, Elena Meschi
dell'Università Milano Bicocca e da Ludovico Carrino,
ricercatore del King's College di Londra e dell'Università
Trieste.
Le analisi hanno utilizzato dati provenienti da oltre 26.000
lavoratori britannici (donne e uomini), che hanno svolto lo
stesso lavoro tra 2010 e 2015. Nel tempo, pur svolgendo lo
stesso lavoro, le condizioni sono cambiate a causa del progresso
tecnologico e delle fasi di crescita e di decrescita economica.
Lo studio ha analizzato come la salute mentale dei
lavoratori, in generale, abbia reagito nel tempo al cambiamento
delle condizioni di lavoro scoprendo che hanno un effetto sulla
salute mentale dei dipendenti la flessibilità di organizzazione
degli orari di lavoro e il grado di autonomia che le persone
hanno nell'applicare e sviluppare le competenze.
Le conseguenze sono diverse in base al sesso del
lavoratore: la salute mentale delle donne è più sensibile,
rispetto a quella degli uomini, a variazioni nella qualità del
lavoro. I miglioramenti nella qualità del lavoro portano a
grandi riduzioni della depressione e dell'ansia per le donne.
I dati disponibili per l'Italia, da uno studio dell'Istituto
Superiore di Sanità, basato sul sistema di sorveglianza PASSI
[2017-2022] stimano che almeno il 6% degli italiani sotto i 70
anni abbia sintomi depressivi, e che la depressione colpisca le
donne da due a tre volte più degli uomini. Nel Regno Unito, la
Mental Health Foundation ha stimato che i problemi di salute
mentale costano all'economia britannica, soprattutto a causa
della minor produttività del lavoratore, almeno 118 miliardi di
sterline l'anno, il 5% del PIL del Regno Unito.
Per Ludovico Carrino, ricercatore del King's College di
Londra e dell'Università di Trieste, "questo studio ha rilevato,
ad esempio, che se alcune posizioni lavorative solitamente meno
flessibili (ad esempio gli addetti alle vendite, ai servizi
ricettivi, e all'assistenza sociale) potessero sperimentare la
stessa autonomia degli impiegati addetti al lavoro di ufficio,
si osserverebbe una riduzione nel rischio di depressione clinica
del 26% come diretta conseguenza".
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