Trenta scatti in bianco e nero del
lavoro nel porto di Genova nel 1964: chiatte, gru e uomini che
scaricano merci a torso nudo, senza alcuna protezione se non
stracci a coprire la testa e le spalle. Firmati da una donna, la
fotografa Lisetta Carmi, che per poterle scattare si finse
cugina di un portuale che la passava a prendere all'alba per
permetterle di attraversare il varco o la portava, a bordo di
una barca a remi, a scoprire lo scalo. Le immagini, contenute
nella mostra "Il porto: una storia continua" a palazzo Ducale
(chiude il 14/4), è inserita nella rassegna "Pci 100° - nel
segno del lavoro" organizzata dalla Fondazione Diesse in
collaborazione con il gruppo dell'Alleanza progressista dei
socialisti & democratici al Parlamento Europeo, raccontano un
porto diverso da quello di oggi, ma con l'uomo al centro. Nelle
immagini di quello che è stato uno dei primi reportage sul mondo
del lavoro in Italia, si vedono sacchi di merce, come fosfati,
polvere bianca, e c'erano anche l'amianto e camalli in pantaloni
corti che scaricano e caricano le navi. "Ancora oggi il porto
parla di questi momenti storici, perché c'è ancora sul bilancio
dell'Autorità di sistema portuale la voce "indennità
mesotelioma" per chi in quegli anni ha lavorato sulle banchine"
ricorda il presidente Paolo Emilio Signorini che, amianto a
parte, ribadisce invece la continuità nella centralità del
fattore umano negli scali. "Se guardiamo i grandi porti asiatici
vediamo una realtà molto diversa, completamente automatizzata -
dice -. La differenza in positivo è che probabilmente Genova è
uno degli scali dove invece la centralità dell'uomo è ancora
forte. La sfida è far sì che si contemperi con la competitività
del porto". Camillo Bassi, che nel 1964 era responsabile porto
del Pci, racconta che "era un momento difficile e duro perché
c'era un attacco durissimo alla Compagnia unica" con l'Ilva
(allora Italsider) che chiedeva l'autonomia funzionale per
scaricare e caricare le merci.
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