Moby Prince, sera del 10 aprile 1991: 140 morti dopo l'impatto del traghetto della Navarma con la petroliera Agip Abruzzo al largo del porto di Livorno. La più grande tragedia della marineria italiana. Che non è avvenuta per colpa della nebbia o per l'imprudenza di un comandante. C'è stata poi una "sostanziale assenza di intervento" di soccorso che avrebbe potuto salvare diverse vite. E l'indagine della procura livornese è stata "carente e condizionata da diversi fattori esterni".
E' un atto di accusa netto quello contenuto nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause del disastro, presentata oggi al Senato. "Una ferita ancora aperta, 27 anni dopo", l'ha definita il premier Paolo Gentiloni. Mentre il presidente del Senato, Pietro Grasso ha parlato di "dramma che sconvolse anche la coscienza del Paese, una pagina nera" per l'Italia. Ora, ha considerato il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, "grazie al grande lavoro della Commissione si alza un velo che fa sperare in una nuova pagina".
PETROLIERA ERA IN ZONA DIVIETO ANCORAGGIO - La nebbia, assente quella sera in mare, è stata quella dell'omertà e dei depistaggi. Una cortina che non accenna a disperdersi visto che, lamenta la Commissione, alcune persone ascoltate in audizione hanno "negato evidenze" e fornito "versioni inverosimili degli eventi". A distanza di tanti anni è così difficile una ricostruzione puntuale dei fatti. Ma i parlamentari - dopo due anni di lavoro ed oltre 110 riunioni - ritengono di aver fissato alcuni punti fermi: l'Agip Abruzzo si trovava quella sera in una zona di divieto d'ancoraggio e la sua posizione non è stata correttamente riportata nel corso delle indagini. C'è stata inoltre un'alterazione della rotta del Moby Prince tra le cause dell'impatto, "per fattori interni o esterni al traghetto".
SOCCORSI INESISTENTI, VITE SI POTEVANO SALVARE - Un tasto dolente è quello dei soccorsi. Secondo al Commissione la morte di passeggeri ed equipaggio del Moby Prince non è avvenuta entro 30 minuti dell'impatto per tutti e dunque alcune vite potevano essere salvate. Ma c'è stata una "sostanziale assenza di intervento nei confronti del traghetto" da parte della Capitaneria di porto di Livorno che durante "le ore cruciali apparve del tutto incapace di coordinare un'azione" ed "era priva di strumenti adeguati, come un radar".
FORTE OPACITA' ENI - LA Commissione definisce poi "connotato di forte opacità" il comportamento di Eni. La petroliera infatti, secondo la relazione, non proveniva da un terminal egiziano, ma da Genova e dunque il carico potrebbe essere stato differente da quello dichiarato, L'accordo assicurativo firmato tra i due armatori dopo solo due mesi dall'incidente pose però "una pietra tombale su qualunque ipotesi conflittuale sulle responsabilità tra l'Eni, che si assunse i costi dei danni della petroliera e dell'inquinamento e Navarma, che si assunse invece i costi del risarcimento delle vittime". Eni poté così far chiudere le indagini sulle attività a bordo della petroliera, sul suo carico ed ottenerne il dissequestro dopo soli 7 mesi avviandola alla demolizione.
INDAGINI CARENTI, PROCURA CONDIZIONATA - Nel mirino della commissione anche la procura di Livorno che per il processo di primo grado ha condotto un'attività d'indagine "carente e condizionata da diversi fattori esterni". In particolare, secondo la relazione, ha condizionato l'inchiesta il fatto di aver utilizzato parte dell'indagine sommaria svolta dalla stessa Capitaneria di porto, gli stessi sogetti direttamente coinvolti nella gestione dei soccorsi, alcuni dei quali coinvolti anche nelle vicende giudiziarie successive.
FIGLIO COMANDANTE MOBY PRINCE, ORA REVISIONE PROCESSO - Contro i magistrati livornesi dell'epoca si scaglia anche Angelo Chessa, figlio di Ugo, il comandante del Moby Prince, tra le vittime dell'incidente. "Il processo di primo grado - osserva - è stato una vergogna per la giustizia italiana. Ora speriamo in una revisione in modo che si arrivi alla punizione dei veri colpevoli".
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