(di Manuela Tulli)
MARCELLO COZZI, 'UNO COSI', GIOVANNI
BRUSCA SI RACCONTA', (SAN PAOLO, PP.187, 16 EURO) - "Mi sono
chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte
del piccolo Di Matteo. Non lo so. Mi accusano spesso di non
mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un
omicidio come questo non c'è perdono". E' Giovanni Brusca a
parlare, consapevole di avere commesso una delle peggiori
atrocità negli eccidi di mafia, l'uccisione e lo scioglimento
nell'acido di Giuseppe Di Matteo, allora adolescente. Il libro
uscirà domani 19 settembre.
Brusca si racconta in un lungo dialogo con don Marcello
Cozzi, lucano, prete impegnato da decenni sul versante del
disagio sociale, nell'educazione alla legalità, nel contrasto
alle mafie e nell'accompagnamento ai pentiti di mafia e ai
testimoni di giustizia. Un confronto dove non ci sono sconti sul
passato di Brusca e la perdita di tante vittime innocenti, tra
le quali il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini
della scorta. Ma don Cozzi, da uomo di Chiesa, guarda anche alla
sofferenza di 'Caino': "Mi porto la ferma convinzione che 'uno
così' resta una persona, nonostante tutto, nonostante il male
commesso, la morte procurata, il dolore profuso, perché - lo
dico da subito - non intendo rassegnarmi all'idea che in fondo
la prima vittima di un carnefice è lui stesso", sottolinea l'ex
vicepresidente di Libera.
Senza chiedere di dimenticare le sue terribili
responsabilità, Giovanni Brusca si apre raccontando il suo
percorso, fin dagli inizi: "Fin da bambino ho convissuto con le
forze di polizia", racconta a don Cozzi, "a causa delle
frequenti perquisizioni che venivano a farci in casa. E così è
stato inevitabile farmi di loro un'idea pessima; i miei
genitori, infatti, me li facevano vedere come fastidiosi e
cattivi, come se tutti i guai giudiziari di mio padre fossero
colpa loro". "Se avessi avuto una scuola attenta, se quelli del
Comune fossero venuti a cercarmi quando in quinta elementare mio
padre mi ritirò dalla scuola per mandarmi dietro alle pecore,
forse la mia vita non sarebbe andata come è andata e forse io
non avrei pensato che era quello l'unico modo di vivere". Forse.
Riflette così sul suo passato, lui fedelissimo di Totò Riina,
lui che il 23 maggio 1992 premette il telecomando causando la
strage di Capaci. Ricorda anche di quando faceva il chierichetto
e accompagnava il suo parroco per le benedizioni: "A un certo
punto però anche quel legame con la parrocchia si interruppe".
Sul suo ultimo periodo racconta: "Mi colpì quando, uscendo
dalla questura per essere portato in carcere, trovai fuori dal
portone gente normale, gente onesta, che applaudiva ai
poliziotti, urlava e mi gridava dietro cose irripetibili:
mostro, bestia e altre cose simili. Ecco, per la prima volta
toccavo con mano quello che realmente le persone pensavano di me
- e confida - Quando finalmente ho preso coscienza del male che
ho fatto, allora per me è stato come entrare in un incubo senza
fine".
"Leggere il viaggio che ci propone don Marcello Cozzi è avere
il coraggio di spogliarsi dai pregiudizi, dal bianco e dal nero,
dalla condanna scontata, dall'essere il popolo che polarizza
tutto", sottolinea nella prefazione Paolo Borrometi, giornalista
che ha condotto molte inchieste sulla mafia e che per questo ha
subito pesanti minacce, oggi condirettore dell'Agi.
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