I registi americani Joel e Ethan Coen guideranno la giuria del sessantottesimo Festival di Cannes (13-24 maggio). Per la prima volta nella storia del festival non una ma due persone a presiedere la giuria. La guida con i fratelli registi è anche un omaggio ai 120 anni dell'invenzione dei fratelli Lumiere.
Postmoderni, spiazzanti, ironici, antieroici, ma anche profondamente biblici, perché dietro ad ogni loro film un Dio c'è sempre. Così si potrebbero definire Joel e Ethan Coen, che approdano al prossimo Festival di Cannes (13-24 maggio) in qualità di presidenti di giuria (è la prima volta di una coppia) anche in omaggio ai 120 anni dell'invenzione dei fratelli Lumiere. Andamento autoriale e volutamente grottesco, il loro cinema rifiuta per principio le etichette. Se lo definisci non lo trovi più. Capaci di sperimentazione, da 'Fargo' a 'Non è un paese per vecchi', i due fratelli nati a St.Louis Park dicono di loro: ''Amiamo la libertà di raccontare le storie che a Hollywood non piacciono, perché non sono consolanti e i personaggi sono tutt'altro che eroici. Ma quando scriviamo noi non ci preoccupiamo mai dell'oggi e non vogliamo fare nessuna riflessione sull'attualità''. Nei loro film, a partire da 'Il grande Lebowski', sottolinea in una intervista fatta loro da Paolo Sorrentino:''i Coen hanno convinto gli spettatori della forza della divagazione. Hanno sdoganato la gratuità, elevandola a forma d'arte, regalando a tutti i cineasti successivi una nuova, impensata forma di libertà...''. Va detto che i due fratelli, detti 'Il regista a due teste', fanno tutto assieme: scrivono le scene, fin nei minimi dettagli, per arrivare forse alla fase più difficile: il montaggio. ''È la fase della disperazione - hanno detto più volte -. Il momento in cui dobbiamo decidere se infilarci una pistola in bocca e premere il grilletto o infilarci nella vasca da bagno e tagliarci le vene. Il montaggio serve a risolvere i problemi''. Sul loro umorismo fin dentro la violenza (basti pensare al personaggio di Javer Bardem in Non è un Paese per vecchi) non è possibile non pensare all'umorismo ebraico. ''La razionalità contro l'assurdo compare specie nelle storie yiddish - dicono parlando di Serious man, forse il loro film più personale -. Nei racconti di Singer , che abbiamo letto, si parla molto di dybbuk , l'anima di un defunto che torna per impressionarsi di un vivo. Noi non volevamo parlare della morte in modo esplicito , però l'elemento c'è. Il film è il nostro modo di rappresentare la cultura ebraica''.
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