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Snowden, essere al sicuro è inutile se non c'è libertà

Snowden, essere al sicuro è inutile se non c'è libertà

Al Festival di Perugia: 'Sorveglianza non batte terrore, Italia parli'

PERUGIA, 18 aprile 2015, 12:58

Redazione ANSA

ANSACheck

Edward Snowden in collegamento con il Festival di Giornalismo di Perugia, 17 aprile 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA

Edward Snowden in collegamento con il Festival di Giornalismo di Perugia, 17 aprile 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA
Edward Snowden in collegamento con il Festival di Giornalismo di Perugia, 17 aprile 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA

Quando il suo volto appare sul maxischermo della Sala dei Notari a Perugia, gremita come non mai, si leva un lungo applauso, e lui risponde con un sorriso, ben accennato, per ringraziare. Edward Snowden è in collegamento via Skype dal luogo segreto di Mosca dove si è rifugiato per evitare di finire in manette negli Usa per l'accusa di spionaggio dopo aver rilevato i sistemi di sorveglianza di massa utilizzati dall'intelligence americana. Fa capire subito perché ha accettato l'invito del Festival di Giornalismo di Perugia. "Il giornalismo - sostiene - è una delle armi più efficaci che abbiamo, forse l'unica. I governi non si riformeranno da soli, il potere non funziona così". Non solo denuncia, dunque, dall'ex tecnico della Cia, ma anche un appello ai tanti giovani presenti al Festival: "Dobbiamo capire come rendere sicura la rete e aumentare il livello della liberta. L'unico modo per farlo è con il dialogo. Dobbiamo pretendere risposte dai potenti". Dai governi nazionali in primo luogo, anche da quello italiano, che - come ricorda il moderatore dell'incontro, Fabio Chiusi - è rimasto in silenzio di fronte alle denunce della talpa del Datagate. "Non è un segreto che l'intelligence italiana e americana lavorino a stretto contatto. Il rapporto è solido e segreto", afferma Snowden, citando il caso Abu Omar e i suoi viaggi a Milano, quando era alle dipendenze della Cia a Ginevra. "Magari i premier non conoscono i dettagli perché non vogliono saperli - aggiungere -, ma devono rispondere alle domande, perché la gente si chiede perché non rispondono". Per l'ex collaboratore dei servizi americani, lo scenario è sempre più preoccupante, anche alla luce dei tentativi dei governi di obbligare le aziende a fornire le chiavi per decriptare i linguaggi utilizzati per le comunicazioni via Internet. "I politici credono che tutto sia lecito per garantire la sicurezza, ma la sorveglianza di massa è inefficace contro il terrorismo - sostiene -. In Francia questi sistemi sono stati legalizzati prima che avvenisse l'attacco a Charlie Hebdo, ma questo questo non ha impedito la strage. Lo stesso è avvenuto in Canada e Usa". E poi "essere perfettamente al sicuro non vale a nulla, se non siamo liberi". "E' il più grande sistema di oppressione dell'umanità - avverte -, ed esiste in più parti del mondo. Basta un capo di governo mal intenzionato e noi accenderemo questo sistema e non si potrà più tornare indietro. Dobbiamo agire subito, altrimenti potrebbe diventare sempre più difficile". All'incontro, oltre all'avvocato di Snowden, Ben Wizner, è intervenuta, anche lei via Skype, Laura Poitras, regista di Citizenfour, il documentario che testimonia il passaggio delle informazioni in possesso di Snowden alla stampa, vincitore dell'Oscar 2015, uscito ieri in Italia. "Dall'uscita del documentario la mia vita è cambiata - racconta -, ci è stato consigliato di evitare di viaggiare in Usa, ho dovuto vivere a Berlino e sono stata fermata più volte alla frontiera americana. Però quello che abbiamo pubblicato ci ha dato in qualche modo protezione". "Spero con il mio lavoro - dice ancora - di diffondere la consapevolezza della minaccia nei confronti della democrazia rappresentata dai sistemi di sorveglianza. Presto pubblicheremo altro materiale di Hong Kong (dove Snowden è stato prima di rifugiarsi in Russia, ndr). Noi registi dobbiamo saper concentrare tutto in pochi minuti, ma c'è ancora tanto materiale che merita di essere pubblicato".

 

Il direttore di Charlie Hebdo, in un videomessaggio inviato al Festival - che ha ricordato la strage di Parigi con la proiezione del documentario 'Cabu, poliquement incorrect! - ha sottolineato che "esercitare un diritto non è una provocazione".

 

 

"A Charlie - ha detto Gerard Biard -  anche se quello che è accaduto è terribile, abbiamo voluto andare avanti perché vogliamo far capire a tutti, non soltanto ai francesi, ma a tutti gli europei, a tutta la gente del mondo, a tutti i democratici del mondo che esercitare un diritto non è una provocazione". "Siamo stati spesso accusati di essere provocatori, perché abbiamo usato il diritto della libertà di espressione, della libertà di satira, della libertà di caricatura e della libertà di blasfemia - ha aggiunto -. La blasfemia per noi è importante, non perché sia un piacere bestemmiare o insultare il potere divino. E' importante perché è una forma di contestazione dell'autorità. E questo in democrazia è fondamentale. Se una democrazia proibisce la blasfemia, se la punisce con la legge, non è più una democrazia, perché punisce la contestazione dell'autorità". "Per noi è questa una delle ragioni per cui abbiamo deciso di continuare - ha detto ancora -. Perché quello che è stato colpito non è soltanto la libertà di espressione, la laicità, la libertà di ridere e di sentire, è il cuore dell'idea politica della democrazia, della contestazione, della possibilità di contestare e della possibilità del dibattito. Abbiamo visto con l'attentato a Copenhagen che questa gente il dibattito non lo vuole, lo rifiuta. E questo non è possibile. Se rifiutiamo il dibattito siamo morti. E noi siamo sempre vivi".

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