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Il senso della fiaba secondo il creatore di Mad Max

Il senso della fiaba secondo il creatore di Mad Max

George Miller a Cannes con Three thousand years of longing

ROMA, 22 maggio 2022, 00:58

di Giorgio Gosetti

ANSACheck

Three Thousand Years Of Longing - Photocall - 75th Cannes Film Festival - RIPRODUZIONE RISERVATA

Three Thousand Years Of Longing - Photocall - 75th Cannes Film Festival - RIPRODUZIONE RISERVATA
Three Thousand Years Of Longing - Photocall - 75th Cannes Film Festival - RIPRODUZIONE RISERVATA

- Una sola proiezione, attesissima, è stata concessa dal festival all'australiano George Miller che torna a Cannes fuori concorso per rinverdire lo straordinario successo di "Mad Max: Fury Road", capace nel 2015 di spiccare da qui il volo verso ben sei Oscar.

Il problema è che la sua nuova fatica, THREE THOUSAND YEARS OF LONGING ha le stesse ambizioni ma un impianto molto più pensoso e complesso.

Naturalmente siamo di fronte a un grande spettacolo, zeppo di strabilianti effetti speciali e impreziosito da due interpreti carismatici come Tilda Swinton e Idris Elba. Ma i problemi cominciano dallo spunto iniziale, la raffinata novella di A.S.Byatt "The Djinn in the Nightingale's Eye" che il settantacinquenne (la stessa età del festival) ha voluto sceneggiare con sua figlia, Augusta Gore, all'esordio come autrice. La storia è semplice e volutamente archetipica: una studiosa di narratologia sbarca a Istanbul per un congresso in cui deve parlare dei miti rispetto alla verità storica. Vagando per il bazar compra un ricordino, una bottiglietta che -come da titolo - ha il colore dell'occhio dell'usignolo. Grande la sua sorpresa quando, rientrata in albergo, toglie il tappo e si trova di fronte un muscoloso genio della lampada, il Djinn. Come da copione il bravo genio vorrebbe soddisfare tre desideri della sua padrona, ma la bella Alithea è troppo smaliziata in materia di leggende per abboccare. Per impietosirla il genio le narra le sue disavventure che da tremila anni lo obbligano a vagare nel mondo rinchiuso in bottiglia. Comincia così un sistema narrativo di scatole cinesi che avvicinano i due protagonisti e sprofondano il lettore (spettatore) in un clima da "Mille e una notte". Alla fine Alithea si impietosisce e accetta di veder soddisfatto un desiderio. Ma sa bene che con i miti non si scherza, specie se attraversano le epoche e le civiltà. Di fronte a questa materia George Miller dispiega tutte le sue doti di affabulatore per immagini. "Non c'è dubbio che avevo voglia di ritrovare la fascinazione del bambino di fronte al meraviglioso- racconta oggi -ma allo stesso tempo mi trovavo a fare i conti con il nostro stesso mestiere. In fondo chi fa cinema è sempre un genio della lampada imprigionato nei suoi fantasmi e in quelli degli spettatori". "Quando è venuto da me - racconta invece un'algida e sorridente Tilda Swinton in camicia over azzurro cielo e riconoscibile per una cresta bionda da gallo cedrone - George mi parlava di un film piccolo piccolo,una riflessione sul mestiere e sul tempo. Mi ha ingannata perché con Idris ci siamo trovati al centro di un fantastico viaggio nel tempo, ma ho cercato di cogliere la sua idea iniziale: una fiaba che continuiamo a raccontarci per ritrovare l'incanto dell'infanzia." Il problema del film sta appunto nella distanza tra l'ambizione e il risultato: Miller non è il primo anglosassone che si imprigiona da solo in un universo culturale a cui non appartiene. A lui si addicono i grandi spazi, l'elementare suggestione dei miti, un'epica primordiale cucita su misura per eroi come il Max della sua fortunata quadrilogia. "Il mio genio -confessa candidamente il monumentale Idris Elba-è tutto fuorché un eroe, semmai una vittima del tempo sospeso in cui è costretto a manifestarsi. Vorrei avere restituito al personaggio tutta la sua impotente sofferenza": difficile credergli quando torreggia sullo schermo e ti aspetti che sia già pronto sbaragliare i cattivi come un novello Sinbad. Lontano dal suo racconto identitario che a intervalli regolari gli ha portato fortuna, Miller sembra vagamente spaesato. E' un meraviglioso tecnico dell'immaginario, ha percorso sentieri fortunati da "Babe" a "Happy Feet", ma qui ingaggia una lotta impari con la raffinatezza sottile della novella originale. Vorrebbe restituirci una imponente metafora del cinema e della narrazione, ma finisce intrappolato con le sue stesse armi. Tra poco lo aspetta un altro set, un quinto capitolo della saga di Mad Max intitolato "Furiosa". Quello è il suo terreno naturale e farà bene a tornarci: ci sono culture e continenti come l'Australia che generano miti e fantasmi potenti, ma diversissimi da quelli della cultura mediterranea in cui fioriva l'impero ottomano e si narravano le storie di Sherazade. Chi le evoca senza conoscerne la natura può generare spettacolo (e in questo "Three Thousand Years of Longing" fa egregiamente il suo mestiere) ma deve tenersi alla larga da allegorie e miti che non gli appartengono.
   

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