- Una sola proiezione, attesissima, è stata concessa dal festival all'australiano George Miller che torna a Cannes fuori concorso per rinverdire lo straordinario successo di "Mad Max: Fury Road", capace nel 2015 di spiccare da qui il volo verso ben sei Oscar.
Il problema è che la sua nuova fatica, THREE THOUSAND YEARS OF LONGING ha le stesse ambizioni ma un impianto molto più pensoso e complesso.
Naturalmente siamo
di fronte a un grande spettacolo, zeppo di strabilianti effetti
speciali e impreziosito da due interpreti carismatici come Tilda
Swinton e Idris Elba. Ma i problemi cominciano dallo spunto
iniziale, la raffinata novella di A.S.Byatt "The Djinn in the
Nightingale's Eye" che il settantacinquenne (la stessa età del
festival) ha voluto sceneggiare con sua figlia, Augusta Gore,
all'esordio come autrice. La storia è semplice e volutamente
archetipica: una studiosa di narratologia sbarca a Istanbul per
un congresso in cui deve parlare dei miti rispetto alla verità
storica. Vagando per il bazar compra un ricordino, una
bottiglietta che -come da titolo - ha il colore dell'occhio
dell'usignolo. Grande la sua sorpresa quando, rientrata in
albergo, toglie il tappo e si trova di fronte un muscoloso genio
della lampada, il Djinn. Come da copione il bravo genio vorrebbe
soddisfare tre desideri della sua padrona, ma la bella Alithea è
troppo smaliziata in materia di leggende per abboccare. Per
impietosirla il genio le narra le sue disavventure che da
tremila anni lo obbligano a vagare nel mondo rinchiuso in
bottiglia. Comincia così un sistema narrativo di scatole cinesi
che avvicinano i due protagonisti e sprofondano il lettore
(spettatore) in un clima da "Mille e una notte". Alla fine
Alithea si impietosisce e accetta di veder soddisfatto un
desiderio. Ma sa bene che con i miti non si scherza, specie se
attraversano le epoche e le civiltà. Di fronte a questa materia
George Miller dispiega tutte le sue doti di affabulatore per
immagini. "Non c'è dubbio che avevo voglia di ritrovare la
fascinazione del bambino di fronte al meraviglioso- racconta
oggi -ma allo stesso tempo mi trovavo a fare i conti con il
nostro stesso mestiere. In fondo chi fa cinema è sempre un genio
della lampada imprigionato nei suoi fantasmi e in quelli degli
spettatori". "Quando è venuto da me - racconta invece un'algida
e sorridente Tilda Swinton in camicia over azzurro cielo e
riconoscibile per una cresta bionda da gallo cedrone - George mi
parlava di un film piccolo piccolo,una riflessione sul mestiere
e sul tempo. Mi ha ingannata perché con Idris ci siamo trovati
al centro di un fantastico viaggio nel tempo, ma ho cercato di
cogliere la sua idea iniziale: una fiaba che continuiamo a
raccontarci per ritrovare l'incanto dell'infanzia."
Il problema del film sta appunto nella distanza tra l'ambizione
e il risultato: Miller non è il primo anglosassone che si
imprigiona da solo in un universo culturale a cui non
appartiene. A lui si addicono i grandi spazi, l'elementare
suggestione dei miti, un'epica primordiale cucita su misura per
eroi come il Max della sua fortunata quadrilogia. "Il mio genio
-confessa candidamente il monumentale Idris Elba-è tutto fuorché
un eroe, semmai una vittima del tempo sospeso in cui è costretto
a manifestarsi. Vorrei avere restituito al personaggio tutta la
sua impotente sofferenza": difficile credergli quando torreggia
sullo schermo e ti aspetti che sia già pronto sbaragliare i
cattivi come un novello Sinbad. Lontano dal suo racconto
identitario che a intervalli regolari gli ha portato fortuna,
Miller sembra vagamente spaesato. E' un meraviglioso tecnico
dell'immaginario, ha percorso sentieri fortunati da "Babe" a
"Happy Feet", ma qui ingaggia una lotta impari con la
raffinatezza sottile della novella originale. Vorrebbe
restituirci una imponente metafora del cinema e della
narrazione, ma finisce intrappolato con le sue stesse armi. Tra
poco lo aspetta un altro set, un quinto capitolo della saga di
Mad Max intitolato "Furiosa". Quello è il suo terreno naturale e
farà bene a tornarci: ci sono culture e continenti come
l'Australia che generano miti e fantasmi potenti, ma
diversissimi da quelli della cultura mediterranea in cui fioriva
l'impero ottomano e si narravano le storie di Sherazade. Chi le
evoca senza conoscerne la natura può generare spettacolo (e in
questo "Three Thousand Years of Longing" fa egregiamente il suo
mestiere) ma deve tenersi alla larga da allegorie e miti che non
gli appartengono.
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