Hashim Sarkis, architetto, docente e ricercatore, curatore della Biennale Architettura 2020, chiama alla mente uno dei progetti che saranno in mostra, quello di una scuola in Armenia realizzata in un quartiere "di persone poco privilegiate", per far capire "come l'architettura può cambiare la vita delle persone". Un esempio tra i tanti che la prossima mostra, dal 23 maggio al 29 novembre 2020 a Venezia, porterà all'attenzione del visitatore - "il nostro partner" a dirla con le parole del presidente della Biennale, Paolo Baratta - per cercare di dare risposta, o forse per porre altre nuove domande, all'interrogativo scelto da Sarkis come titolo e per fare da traccia all'esposizione: "How will we live together?".
Un quesito apparentemente basico, "come vivremo insieme?", dove ogni parola, nella descrizione del curatore, può contenere delle indicazioni operative - "We? E' la sensibilità plurale" quasi come "together" che sembra sottolineare l'aspetto collettivo - ma con alla fine un punto interrogativo che apre a risposte diverse, anche a seconda del contesto sociale, economico e territoriale. Un interrogativo al quale gli architetti invitati alla Biennale - le distinzioni di un tempo tra "archistar" e giovani alle prime esperienze, anche con un'ottica visionaria, sono ormai messe da parte - sono incoraggiati a coinvolgere nella loro ricerca "altre figure professionali e gruppi di lavoro: artisti, costruttori, artigiani, ma anche politici, giornalisti, sociologi e cittadini comuni". Perché, sempre a seguire la descrizione di Sarkis, "la Biennale Architettura 2020 vuole affermare il duplice ruolo, spesso trascurato, dell'architetto, che è quello di affabile convocatore e custode del contratto spaziale". Per il curatore, c'è bisogno proprio di "un nuovo contratto spaziale". "In un contesto caratterizzato da divergenze politiche e da disuguaglianze economiche sempre maggiori - spiega- chiediamo agli architetti di immaginare spazi nei quali possiamo vivere generosamente insieme".
Ma quest'ultima parola ha più declinazioni: "insieme come essere umani che, malgrado la crescente individualità, desiderano connettersi tra loro e altre specie nello spazio digitale e in quello reale; come nuove famiglie in cerca di spazi abitativi più diversificati e dignitosi; come comunità emergenti che esigono equità, inclusione e identità spaziale; insieme trascurando i confini politici per immaginare nuove geografie associative; e come pianeta intento ad affrontare delle crisi che richiedono un'azione globale affinché possiamo continuare a vivere". Certo, si capisce, l'architettura non può e non ha gli strumenti per risolvere tutti i problemi di un mondo dove c'è chi vede la questione dell'abitare come problema di avere un tetto sulla testa o aree che vedono grandi realtà realizzate per dare risposte a esigenze, anche produttive, che le condizioni della società e del lavoro hanno reso necessarie di modifiche. Questo pare chiaro, ma come dice Sarkis, come Biennale Architettura saranno al centro le grandi divisioni sociali del nostro tempo, come quelle tra urbano e rurale, tra ricchi e poveri; ci saranno esempi di temi pressanti come i rifugiati oppure gli housing sociali in realtà urbane densamente popolate. Tutti temi trattati "per cercare di individuare una linea futura". D'altronde il 2020 "è stato spesso definito - ricorda il curatore - come una pietra miliare sulla via verso un futuro migliore. Molte nazioni e città hanno elaborato una propria 'vision 2020'. L'anno è alle porte. Guardiamo all'immaginario architettonico collettivo per andare incontro a questa occasione epocale con creatività e coraggio".
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