"In tempo di guerra è necessario e urgente che i saggi, gli artisti, l'aristocrazia del pensiero facciano argine alla catastrofe incontrandosi, parlandosi, misurandosi nella dialettica". Lo ha detto il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, rivendicando il ruolo che l'ente culturale svolge come "strumento di pace", come agone dove misurare la vicinanza tra le culture, i popoli, le religioni e le più irriducibili differenze".
La stretta attualità geo-politica, dopo la passata edizione segnata dalla guerra in Ucraina e il padiglione russo rimasto chiuso, è entrata con forza nelle vicende dei primi giorni di vernice della 60/a Esposizione Internazionale d'arte della Biennale, "Stranieri ovunque", a cura di Adriano Pedrosa, con la decisione dell'artista Ruth Patir e della curatrici, Mira Lapidot e Tamar Margalit, di non aprire il padiglione israeliano "sino a che non sarà pattuito un cessate il fuco e non saranno liberati gli ostaggi" in mano di Hamas.
Buttafuoco, nel corso della conferenza stampa, all'Arsenale, in vista dell'apertura al pubblico dal 20 aprile (la mostra resterà aperta fino al 24 novembre) ha parlato della questione: "Il padiglione d'Israele che decide di non aprire, doppiamente, totalmente, nell'assoluto della verità capovolge l'atto estremo scelto dall'artista nel mettersi in opera al servizio della verità: il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. E questo, per dirla con Magritte, non è un padiglione, è un fatto d'arte, è il genio dell'arte che sa trovare risposta".
La questione Palestina, oltre che su alcune opere in mostra, è comparsa anche in una delle tante borsette, pronte a contenere cataloghi, depliant, mappe della mostra e dei padiglioni nazionali, che accompagnano le marce verso l'arte compiute da migliaia di visitatori.
Poco dopo l'apertura, si sono formate lunghe code, oltre che davanti al Padiglione Centrale e all'Arsenale, davanti ai padiglioni ai Giardini tradizionalmente di richiamo: Germania, Gran Bretagna e Francia. Se la prima prosegue il cammino di domande sullo stesso spazio del padiglione, Julien Creuzet ha riempito lo spazio francese di video, fili colorati, musica. Un luogo all'insegna dell'ambiente che si trasforma in esperienza visiva e sensoriale.
Sono complessivamente una novantina i padiglioni nazionali, distribuiti anche in giro per tutta Venezia. Tanti sono aperti, altri non si sa quando lo saranno, ma nei prossimi giorni, finita l'ubriacatura di vernissage e appuntamenti ai Giardini e Arsenale, tanti appassionati cominceranno a perdersi tra le calli. Un labirinto d'arte a cui Venezia è abituata.
Tornando ai Giardini, la Russia ha dato il padiglione alla Bolivia. In un quadro di domande sui punti chiave della mostra di quest'anno, migrazione e decolonizzazione, si inserisce quello olandese, mentre la Spagna ha allestito la Pinacoteca Migrante Art gallery. Per restare ai Giardini, forte interesse per il padiglione degli Stati Uniti con le opere di Jeffrey Gibson, di origine Cherokee. Uno spazio che l'artista ha elevato a emblema di una cultura inclusiva di realtà e culture diverse.
Mentre si formava una lunga coda davanti all'ingresso, si è alzata la vivace, pacifica protesta di un gruppo di artisti-attivisti contro il padiglione d'Israele con il lancio di volantini con la scritta "No death in Venice No to the genocidi Pavillion".
Tanti anche all'Arsenale i padiglioni nazionali, tra cui quello ucraino. Al Padiglione Italia con l'opera Due qui/To Hear di Massimo Bartolini, con la collaborazione di tre musicisti e due scrittori, c'è la possibilità di vivere un momento segnato da tre fasi: contemplazione, ascolto e condivisione. Un lavoro complesso, affascinante nella sua essenza, che sembra parlare di io e di noi.
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