"La prossima volta però, in concorso!" Comincia così, sul filo dello scherzo, la masterclass dell'artista e regista inglese Steve McQueen in un duetto complice col direttore Thierry Fremaux.
Il tutto si riferisce a quando, nel 2008, vinse con "Hunger" la Caméra d'or per la migliore opera prima.
Le cose poi sono andate diversamente, ma oggi come allora McQueen sussurra all'orecchio del direttore: "La prossima volta torno in concorso". Nel consegnargli il premio del 2008 il regista Bruno Dumont aveva evocato l'originale somma di ricerca della forma e forza etica che lo caratterizza dai corti ai lungometraggi. "Quando mi metto a lavorare su un nuovo progetto non penso mai a quali caratteristiche avrà il film, è lui che mi detta lo stile e il formato. Invece mi concentro sul tema e dentro trovo quella rabbia, quella necessità di lotta che dà senso al mio fare cinema o arte. E' una lotta che ciascuno affronta nella vita e che io voglio intercettare: c'è lotta nella rabbia di uno schiavo, in un ragazzo e nella sua musica, perfino nei nuovi schiavi del sesso. Ma è la vita che detta questa legge e io sento di doverle dare voce".
Il suo marchio di fabbrica sono i lunghi piani sequenza in cui letteralmente avvolge lo spazio e i personaggi. "Anche in questo caso - dice -non si tratta di semplice ricerca estetica, anche se è evidente che il mio percorso sperimentale nella video arte ha lasciato delle tracce. Ma ciò che mi interessa è coinvolgere lo spettatore in una percezione del tempo che passa, immergerlo in una realtà che finisce per condividere e trovo che lunghi movimenti di macchina, rallentamenti o accelerazioni del tempo percettivo vadano in questa direzione. Ogni film è per me come un vestito che va cucito su misura per il tema che affronto, ma in qualche modo lo stile del sarto entra in comunicazione con la foggia del vestito e ne fa l'unicità". Per ben tre volte ha collaborato con Michael Fassbender e questo ha inciso fortemente sulla crescita da autore dello stesso McQueen, come lui stesso ammette. "Abbiamo quel tipo di comunicazione silenziosa - racconta - che ogni autore penso sogni di trovare nel suo protagonista. Ci sono casi in cui tutto ciò produce quella misteriosa empatia poi catturata dalla macchina da presa.
Durante 'Shame', ad esempio, c'è un momento in cui Michael guarda fisso in camera proprio prima di un'eiaculazione. In quel momento stava guardando me, ma in realtà guardava lo spettatore e in definitiva se stesso così come si sarebbe visto sulla pellicola. Era un'inquadratura del tutto non prevista, ma fa parte del naturale e muto dialogo tra me e lui".
Se i tre Oscar e le nomination di "12 anni schiavo" hanno segnato l'approdo di Steve McQueen a Hollywood, "Shame" è stato il suo film più discusso e il suo primo incontro con la realtà americana. "Avevamo previsto di girare a Londra e stavamo facendo molte ricerche sui sex addicted, una forma di moderno schiavismo che non aveva nulla a che fare con un'idea di erotismo al cinema, anzi. Ma i tabloid hanno cominciato ad uscire con titoli ad effetto sul mio progetto e l'atmosfera intorno è immediatamente cambiata. Allora si è deciso di ricominciare tutto daccapo a New York, in una città dove nessuno faceva caso a noi. Abbiamo raccolto moltissimo materiale e intervistato sia medici che pazienti, trovando la conferma di un fenomeno diffuso in cui si riflettono le contraddizioni e le nevrosi della società globale. Non mi sono mai pentito della scelta e ho cominciato a capire meglio anche la mentalità dei miei cugini americani". La cura maniacale nella costruzione dello spazio e la struttura di montaggio dei film di Steve McQueen lasciano capire che l'improvvisazione non fa parte del suo bagaglio teorico ed il regista lo conferma. "Non ho niente contro l'invenzione del momento, ma mi piace avere un copione solido in mano, sapere che nella testa ho disegnato le sequenze, è come se cercassi un ancoraggio sicuro prima di andare sul set.
Qualche volta poi capita che le situazioni o gli attori influenzino una scena fino a modificarla, ma non ne ho mai fatto un principio. Del resto se guardate i film di Jean Vigo, il mio autore preferito che pure coglie l'aria del surrealismo, scoprirete che in lui non c'è mai nulla di estemporaneo o casuale".
Sulla scena della masterclass, con i suoi pantaloni troppo larghi, la corporatura imponente e il camicione color tabacco da turista pronto ad andare in spiaggia, Steven Rodney McQueen all'inizio sembra più uno studente sommariamente preparato che un professore in cattedra. Ma, fedele al suo carattere passionale, pian piano si scioglie, apre la porta del suo atelier alla curiosità dei fan (quasi fideisti nel modo in cui si abbeverano alle sue parole) e dispensa perfino un consiglio a un ragazzo di colore che viene rifiutato a tutti i casting: "Sei troppo timido - gli dice - e se non mostri di valere, anche per il colore della tua pelle, ti prenderanno sempre sottogamba. Mostra l'orgoglio, non ti piegare alla dittatura dei soldi. Questo non è un mestiere, è una passione e, se sei fortunato, un'arte!".
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