(Di Daniela Giammusso)
Avrebbe dovuto essere dedicata al
"Futuro", tema quanto mai sentito in questi giorni sospesi. Ma
proprio a causa dell'emergenza Coronavirus è stata annullata
anche la tappa romana di "Parole in viaggio", l'iniziativa
organizzata da Marietti 1820 per celebrare i duecento anni della
casa editrice, prevista per martedì 7 aprile nella Biblioteca
del Senato della Repubblica nella capitale.
Il viaggio in Italia di Marietti 1820 coinvolge nove città
italiane (a ognuna è associata una parola) e propone undici
lezioni, uno spettacolo e una mostra di libri e documenti (il
programma dettagliato, che si avvale della collaborazione di
Bper banca, Emme promozione, Edimill e Tuna bites, è sul sito
www.mariettieditore.it/bicentenario).
La tappa romana del viaggio, incentrata sulla parola Futuro, era
affidata a Franco Ferrarotti, primo professore italiano di
Sociologia all'Università di Roma La Sapienza, diplomatico e
deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963,
oltre che docente a Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca,
Varsavia, Colonia, Tokyo e Gerusalemme. Con lui sarebbero dovuti
intervenire anche Maria Immacolata Macioti ed Elena Zapponi,
sempre de La Sapienza; Luigi Berzano dell'Università di Torino;
Enzo Pace dell'Università di Padova; e il direttore editoriale
di Marietti 1820, Roberto Alessandrini.
Nei sei volumi delle sue Opere, pubblicati da Marietti 1820,
Ferrarotti raccoglie in oltre cinquemila pagine le riflessioni
teoriche, le ricerche sul campo sulle periferie, le mafie e il
terrorismo e gli scritti autobiografici, dal racconto dei viaggi
negli Stati Uniti e in Amazzonia al ricordo degli amici e
maestri Cesare Pavese, Nicola Abbagnano, Felice Balbo e Adriano
Olivetti. In anteprima per l'ANSA, ecco un'anticipazione del suo
testo sul tema del futuro.
FUTURO
di Franco Ferrarotti
Nessun dubbio che il tema del futuro, vale a dire la possibilità
di prevedere ciò che accadrà domani e dopodomani, eserciti su
tutti una straordinaria attrattiva e costituisca un problema
dominante da tempo immemorabile, dagli oracoli dell'antichità
classica alle previsioni odierne circa l'andamento del ciclo
economico. Ma l'esito delle previsioni, malgrado gli indubbi
progressi del calcolo delle probabilità, permane altamente
incerto, un'incertezza che l'oracolo di Delfi, come gli aruspici
latini, attenti osservatori delle interiora animali, e gli
specialisti odierni della futurologia sono astuti e lesti a
nascondere in un linguaggio talvolta alquanto equivoco. C'è un
esempio classico: ibis redibis non morieris in bello ("andrai,
tornerai /non/ morirai in battaglia").
Ciò che con relativa sicurezza sembra legittimo affermare è che
non si dà possibilità di progettare il futuro senza aver
recuperato il passato. Non voglio dire che il passato non passa
mai. Molto più semplicemente, sembra chiaro che, senza aver
compreso a fondo il passato, è difficile capire il presente ed è
impossibile progettare razionalmente il futuro. In altre parole,
forse eccessivamente poetiche per non tradire un certo pathos:
il futuro ha un cuore antico. Non solo. A guardare a fondo nella
questione, il futuro è già da sempre cominciato.
Ciò è vero soprattutto oggi, quando l'innovazione tecnica è
universalmente salutata e adottata come principio-guida dello
sviluppo delle società umane. Sorge il dubbio se si tratti di
sviluppo ragionato, o quanto meno ragionevole, o se invece ci si
arrenda, inesorabilmente, al fare per fare che approda,
inevitabilmente, al caos.
Nessun dubbio che la tecnica abbia avuto e ancora abbia effetti
positivi. Nessun tipo di neo-luddismo è oggi ammissibile.
Dall'acqua calda alle fognature urbane e ai progressi nella
medicina i positivi risultati della tecnica, come scienza
applicata, sono innegabili. Ma la tecnica è una perfezione priva
di scopo. È in grado di accertare e controllare la correttezza
funzionale delle proprie operazioni interne, ma non può dirci né
dove siamo, né dove andiamo.
La contraddizione mortale che oggi pesa sull'umanità è data da
un progresso tecnico a portata planetaria di estrema rapidità e
da un mondo governato da gruppi dirigenti che, quasi per
istintiva reazione difensiva, idealizzano il proprio orticello;
si rinchiudono in Stati-nazione che hanno fatto il loro tempo,
invenzione geniale del Settecento al termine delle sanguinose
guerre di religione in Europa con la pace di Vestfalia (1648),
oggi però paralizzati da una burocrazia pletorica e inefficiente
e basati sul principio ormai anacronistico del "cuius regio,
eius religio".
Il futuro che ci attende dipenderà dalla capacità non tanto di
fare per fare, del "more and more", che può addirittura
aggravare le disuguaglianze sociali ed esasperare i contrasti e
quindi scatenare le guerre fra i popoli, quanto invece dalla
compatibilità fra scopi desiderati e mezzi disponibili e
dall'analisi preventiva dei costi umani delle riforme sociali
ritenute necessarie. Il progresso tecnico, di per sé, non è in
grado di garantire un futuro di fraterna uguaglianza sociale e
ancor meno di riscoprire la comune umanità degli esseri umani.
Filosofi e psicologi socialmente orientati cominciano a
ritenere, a mio giudizio correttamente, che il senso del limite
dei nostri progenitori, greci e latini, vada prontamente
recuperato: medén agan; ne quid nimis; nulla in eccesso. Le
colonne di Ercole inviolabili e il salutare terrore
dell'àperion, o dell'illimitato, sono ancora oggi più che mai
attuali. L'illustre etimologista Giovanni Semerano, in garbata
polemica, mi faceva anni fa osservare che àpeiron non era
termine di origine greca, ma sumero-accadica e che significava
semplicemente "fango", "terriccio". Può essere. Preferisco
attenermi al significato ad esso attribuito da Platone e da
Aristotele.
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