Paolo Petroni
Se una cosa ci ricorda questa
pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente
dell'uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi,
registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e
creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze,
epidemie e altri cataclismi che cancellano o quasi il genere
umano dalla terra e ne mettono a nudo la sua vera natura. Allora
questi romanzi, queste cronache di day after, queste
supposizioni di arrivo al limite e di salvezza in extremis, con
cui viviamo una qualche consonanza, possono essere qualcosa che
ci aiuta a capire e riflettere su quel che ci sta accadendo in
questo inizio 2020, magari a metabolizzarlo in qualche modo,
così da ripartire, come si dice ora, sapendo almeno un poco di
più chi siamo.
Per secoli le pestilenze son state viste come punizioni
divine. Lo vediamo anche all'inizio della ''Iliade'' con Apollo
che lancia i suoi ''amarissimi dardi'' appestati, prima colpendo
muli e cani, poi le persone presso le navi così che per nove
giorni ''fitte le pire ardean sempre dei morti'', e gli Achei,
per placarlo e poter condurre avanti la guerra contro Troia,
indagano venendo a scoprire che l'ira del dio nasce dal
comportamento del re Agamennone, che ha offeso un suo sacerdote.
Ancora ne ''La peste'' di Camus del 1947 sempre all'ira
celeste si rifà padre Peneloux, ma c'è oramai l'uomo di scienza,
il dottor Rieux, che contesta questa lettura e combatte la
malattia con la conoscenza del meccanismo dei contagi. Tra
questi due lontani esempi c'è tutta una storia che ha visto
emergere la figura dell'untore, responsabile nell'immaginario
collettivo di propagare il male, con conseguenti persecuzioni e
linciaggi di cui troviamo testimonianza già in Tito Livio. A
ricordo di alcuni di questi episodi, ovvero la condanna a Milano
durante la peste del 1630 al supplizio atrocissimo della ruota
di ''due miseri accusati di aver sparso veleni e malie per le
strade ad accrescere la pubblica sventura'', fu eretta a monito
una colonna di cui Alessandro Manzoni ci parla nella sua
''Storia della Colonna Infame'', appena ristampata con una nota
di Sciascia che vorrebbe questo testo fosse più conosciuto e
studiato (Sellerio, pp. 194 -12,00 euro). Una affascinante
ricostruzione storica, in vista della narrazione dei ''Promessi
sposi'', che affronta il rapporto tra responsabilità personali e
convinzioni e superstizioni singole o collettive, mostrando
l'errore e l'abuso di potere commesso dai giudici senza alcuna
umana pietà su basi del tutto infondate e create solo dalla
paura dell'epidemia. La colonna, infame oramai per i giudici e
non più per i condannati, fu abbattuta nel 1778.
Eppure il sessantenne scrittore francese Patrick Deville,
che ricostruisce in forma di romanzo la vita dello svizzero
Alexandre Yersin, scopritore oltre un secolo fa proprio del
bacillo della peste, che porta il suo nome (Yersina pestis) e
creatore del suo vaccino, quando fugge dalla Francia occupata
dai nazisti gli fa notare: ''Cinque secolo indietro la vastità
del flagello è metafisica, testimonia lo sdegno divino, il
Castigo. Gli abitanti di Villeneuve sul lago di Ginevra hanno
bruciato vivi gli ebrei, accusati di diffondere l'epidemia
avvelenando i pozzi. Cinque secoli dopo, nonostante il passo
indietro dell'oscurantismo, l'odio è lo stesso''. Hitler fa
degli ebrei degli untori, e li perseguita e stermina.
Il romanzo di Deville intitolato ''Peste & colera''
(Edizioni E/O, pp. 210 - 18,00 euro) ha un suo fascino come
appunto la vita tutta particolare del dottor Yarsin, studente a
Parigi allievo del microbiologo Roux e poi di Pasteur che sta
sperimentando il vaccino antirabbica, così che gli si apre una
grande carriera accademica e professionale, ma lascia tutto fare
il medico di bordo nei mari dell'Asia dove si innamora del
Vietnam (allora francese) e vi trascorre gli anni della Grande
Guerra prima di tornare in patria e poi ripartire appunto nel
1944 per restarvi sino alla morte nel 1943. Si ritira nel paese
di pescatori Nha Trag dove fonda un Institut Pasteur e una
comunità scientifica e agricola. ''Non aver scoperto il bacillo
della peste lo condannerebbe a morire un esploratore sconosciuto
tra le migliaia di esploratori sconosciuti. Basta una puntura
sulla punta del dito come nelle favole. Ma è sempre così la vita
romantica e ridicola degli uomini. Sia che tratti la peste o
muori di cancrena''. Scienziato nel cuore, non ama lo studio
sui libri ma l'osservazione in laboratorio e in natura. Ha
un'anima di avventuriero, sogna di diventare come Livingstone.
Fu lui a introdurre molte specie di piante in Vietnam, tra cui
caffè, cacao, china e sviluppò la coltivazione degli alberi
della gomma, collaborando anche con la Michelin. Un vero
personaggio da romanzo la cui vita è segnata dalla peste, quando
la incontra da Hong Kong nel 1894 e poi a Canton fu il primo
medico a curarne una vittima. Un personaggio che oggi ci ricorda
il senso e il ruolo della ricerca e della scienza nella difesa
dell'uomo dai mali che gli propone la natura e che altrimenti
affronterebbe sconsideratamente e guidato solo dalla paura.
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