ROMA - Lunghi applausi di un pubblico di appassionati e addetti ai lavori per ''Un romano a Marte'' di Vittorio Montalti su libretto di Giuliano Compagno, che ha vinto il premio di composizione bandito dall'Opera di Roma e messa in scena in prima assoluta al Teatro Nazionale con l'Orchestra dell'Opera diretta da John Axelrod e con la colorata e vivace regia di Fabio Cherstich nel cartellone di Contemporaneamente Roma 2019.
Il lavoro, sin dal titolo che ne ribalta gli elementi, prende le mosse da ''Un marziano a Roma'' di Ennio Flaiano, presentato da Vittorio Gassman al Lirico di Milano proprio il 23 novembre del 1960, esattamente 59 anni fa: quell'insuccesso, secondo uno dei celebri paradossi dell'autore, spesso apocrifi, ''mi ha dato alla testa''.
Ora al centro del discorso, più che il marziano Kunt interpretato da Tomofei Baranov), che pure scende dall'alto vestito rosso e giallo come un pompiere, c'è lo stesso Flaiano, descritto nel prologo attraverso quel che non fu (non fascista della prima ora, non antifascista dell'ultima, non di ricca famiglia borghese, non festaiolo, non comunista ...). Accanto allo scrittore e il marziano, c'è il personaggio Ilaria Occhini (Rafaela Albuquerque), attrice di classici e protagonista dell'insuccesso che vuole ''dileguarsi in incognito'', e il critico (Gabriele Portoghese), che ha assistito a quella prima e si fa voce narrante di quegli anni, di quell'atmosfera.
Vittorio Montalti, 35 anni, diplomato a S. Cecilia a Roma e al Verdi di Milano, ha studiato musica elettronica a Parigi all'Ircam e nel 2010 ha vinto il Leone d'Argento per la Creatività alla Biennale di Venezia. si dice legato all'idea di Berio di Opera come plurale di Opus, ''ovvero molteplicità di lavori e tecniche che, combinati assieme, contribuiscono a generare una grande macchina, al cui processo creativo e alla cui attivazione hanno cooperato molte conoscenze e altrettante capacità umane e artistiche''. E questo, più o meno, appare ''Un romano a roma'': una macchina più che un racconto, un insieme di simboli e segni, di parole e elaborazioni musicali, spesso astratti e giocati sul nonsense, a cominciare da quel che si vede in scena e specie l'attività senza mai sosta di due mimi in camice bianco (quasi infermieri di un qualche manicomio). Gli autori (musica, libretto, regia) mettono troppa carne al fuoco sino all'incongruità (a cominciare dal finale a sorpresa con l'intervento del personaggio di Caterina Martinelli, uccisa dai nazisti nel maggio 1944 durante un assalto a un forno al Tiburtino) e puntano sul realismo, con tanto di nomi e cognomi di personaggi reali e col trucco quasi mimetico per la figura di Flaiano, cui dà corpo e voce Domingo Pellicola, ma rinunciando a qualsivoglia sviluppo narrativo, puntando su rare situazioni, scene e suoni che nell'accumulo e nella successione sembra vogliano rendere un'atmosfera difficile da decifrare, forse quella dichiarata della ''romanità'', che le didascalie, il testo proiettato come sovratitoli in certi casi chiariscono, in altri confondono.
Più interessante il tessuto musicale costruito per contrasti e basato sulla commistione tra l'orchestra, l'elettronica e le voci che vanno dal cantato, dal vocalizzo singolo alla frase come destrutturata, al parlato ma tutto senza un vero filo interno, piuttosto sperimentando per blocchi, contrasti e momenti, in un gioco di armonia perduta, che è forse la vera cifra della serata.
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