PRIMO LEVI, ''RANOCCHI SULLA LUNA E ALTRI ANIMALI'' (EINAUDI, pp. 216 - 19,00 euro).
Primo Levi era un uomo di scienza, un chimico, abituato quindi a un rapporto col mondo, anzi con la natura intesa nel senso più lato, di osservazione, classificazione, sperimentazione ed è da questo atteggiamento che nascono i suoi tanti racconti e scritti sugli animali e gli insetti, che ora Ernesto Ferrero ha lodevolmente raccolto in unico volume, che riunisce scritti dalle ''Storie naturali'' a ''Vizio di forma'' e ''Racconti e saggi'' più alcune delle poesie e qualche scritto sparso, come il curioso testo su Darwin messo in appendice.
Un'operazione non peregrina, perchè sul ruolo degli animali nell'opera di Levi si è molto scritto e parlato. Un ruolo che va oltre il ritrovarvi difetti e abitudini proprie anche dell'uomo, come in tanta letteratura classica, perchè alla fine indaga invece sul senso del naturale, sul bene e il male, visto che l'uomo non è una bestia, anche se in certe situazioni (vedi il nazismo e i lager) può diventarlo. E poi nella natura si nasconde il senso della vita, un alternarsi di vita e morte, di cacciatori e cacciati, forse anche un non-senso, se le sue visioni, col passare degli anni, si velano di pessimismo, per la violenza che è in tutto l'universo, ostile, inquieto, ma pure affascinante, se è come lo scrittore cercasse di continuo una comunicazione col mondo animale, certo di trarne ''straordinario arricchimento spirituale e una compiuta visione del mondo''. Del resto è Levi stesso che diceva come molti dei suoi racconti nascessero da una non rara ''percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un 'vizio di forma' che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale''.
Perché tutta la sua narrativa ha una radice, una sostanza, una linfa etica, che rimanda al mistero dell'abominio della ''soluzione finale'', se conclude il suo discorso annotando: ''il lager per me è stato il più grosso dei 'vizi', degli stravolgimenti di cui dicevo prima.
Ecco allora un racconto, ''Le sorelle della palude'', in cui si tiene un discorso che vuol far notare come un parassita, se non voglia perdere tutto, debba rispettare per qualche verso l'essere da cui dipende, se no rischia di dissanguarlo. Senza bisogno di citare le pagine della ben nota ''Angelica farfalla'' (che aprono anche questo volume) con la storia di lager degli esperimenti tragici del professor Leeb, affascinato dall'apparente assurdità dell'axolotl, abitante di alcuni laghi messicani, che si accoppia ancora in stato larvale, con un'altra larva, ben prima di diventare farfalla, mettendo in discussione alla base la trasformazione in ''insetto perfetto'' e il suo senso, visto che per la specie c'è chi ne può fare a meno.
Nel racconto che dà titolo al volume, ecco i tre mesi di vacanze scolastiche passati in campagna, alla scoperta di un mondo abitatissimo, dal ''pipistrello che entra in camera da letto alla faina intravista al crepuscolo'', che ha il suo vertice nel ruscello su cui volano libellule e scarabei e che nell'acqua accoglie ''chimere, bestie impossibili, tutte testa e coda, eppure navigavano veloci e sicure''. Sono girini che il bambino levi si porta a casa e ne segue la muta: ''questo sì era uno spettacolo inedito, pieno di mistero come una nascita o una morte, tale da far impallidire i compiti per le vacanze, e da rendere fugaci i giorni e interminabili le notti''.
Oltre a tutto questo c'è poi il senso della scrittura, c'è la nitidezza e pulizia dello stile di Levi, ma anche l'amore entomologico per la lingua e le parole, se, come scrive Italo Calvino, ''tra gli oggetti dell'attenzione enciclopedica di Levi, i più rappresentati sono le parole e gli animali (qualche volta si direbbe che egli tenda a fondere le due passioni in una glottologia zoologica o in una etologia del linguaggio''. E Ferrero, che questa citazione fa nella sua bella e articolata introduzione, ricorda il gioco sui cognomi in ''Lo scoiattolo''.
Lo zoo letterario di Levi passa dai dromedari ai buoi, dalle giraffe alle formiche, dai gabbiani ai ragni (che proprio non gli piacciono), in questi scritti serissimi, ma affrontati con spirito lieve e spesso un occhio ironico e una venatura paradossale che li rendono talvolta sorprendenti e quasi sempre gradevolissimi alla lettura e assieme capaci di far pensare.
Esemplari allora, nella loro elementare semplicità, i versi di ''Pio'': ''Pio bove un corno. Pio per costrizione / Pio contro voglia, pio contro natura'', sbotta il bove di Carducci ricordando ''l'inaudita violenza'' che l'ha reso non violento, e che al lettore non può non far pensare alla finta remissività di tanti ebrei deportati.
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