GIGI DI FIORE ' LA NAZIONE NAPOLETANA (UTET; 351 PP; 18 EURO). Lentamente, si compone una consapevolezza in Italia sulla necessità di una rilettura degli avvenimenti storici che precedettero la cosiddetta Unità, la caratterizzarono e che a quella seguirono, nel 1861. A formarla, già da qualche anno, contribuiscono parzialmente il movimento neoborbonico, che faceva capo a Riccardo Pazzaglia, più serio dell'immagine che si ha di esso, e una letteratura che ha tratto dai libri dell'epoca di Carlo Alianello, dagli studi di Nicola Zitara, dai testi di Michele Topa, e che ha avuto in Pino Aprile (Terroni) l'effervescente exploit. "La nazione napoletana", di Gigi Di Fiore, si inserisce in questo solco.
Di Fiore, giornalista de Il Mattino, da anni è impegnato in un percorso di meticoloso e rigoroso studioso meridionalista e la "Nazione" è soltanto l'ultimo contributo saggista all' operazione di emersione della verità.
Una verità che è facilmente sintetizzabile: fino alla firma della resa con l'esercito piemontese, il 13 febbraio 1861, i Borbone avevano regnato nell'Italia meridionale per più di quattro generazioni, sette secoli dal normanno Ruggero II d'Altavilla, costruendo una società che non era un paradiso ma nemmeno un arretrato regno, abulico e truffaldino. Napoli in particolare aveva conosciuto un momento di altissimo splendore alla fine del '700, quando gareggiava in Europa con Parigi per scienza e raffinatezza, poi non riuscì a tenere il passo ma rimase una città importantissima. E così anche buona parte del meridione. Tanto che nel 1860 comparando i numeri sulla presenza industriale, il Sud ne usciva meglio di qualunque altra area della penisola.
Finalmente sono sempre di più le voci che confutano il fenomeno del brigantaggio, come il Mezzogiorno fosse stato per anni abitato esclusivamente da predoni sanguinari e non in gran parte da contadini rivoltosi ai quali l'esercito del Nord aveva distrutto casa, famiglia e campi. Fenomeno che comportò nel solo 1861 ben 15.665 fucilati e 47.700 prigionieri. Di Fiore mette in risalto anche le tante (e meno conosciute) contraddizioni di quegli anni. Come il fatto che la guerra tra Piemonte e Due Sicilie non fosse mai stata dichiarata e i due stati avessero mantenuto normali relazioni diplomatiche. E il prezzo altissimo pagato dai soldati rimasti fedeli al re Francesco II, sposato con Maria Sofia Wittelsbach, al termine del conflitto. Campi di rieducazione, mancata integrazione tra i due corpi militari e tantissimi morti, anche di tubercolosi, a causa delle insostenibili condizioni di prigionia, di cui Di Fiore fa la conta. Senza considerare i tanti prigionieri di guerra diventati sbandati. I più avveduto non credevano all'unità ma erano favorevoli a una forma di federalismo (contrappasso storico) che riconoscesse l'autonomia del Mezzogiorno. A tal proposito l'economista Giacomo Savarese in più occasioni ricapitolò i conti dell' Italia del Nord e del Sud, evidenziando che l'unità aveva favorito la prima.
Con passione l'autore racconta il Risorgimento vissuto dagli sconfitti: la storia di Francesco Traversa, morto sotto i bombardamenti durante l'assedio di Gaeta; dell'ultimo capo del governo borbonico, il determinato Pietro Calà Ulloa, e la splendida pagina di ribellione, la prima dell'unità, quella dei lavoratori dello stabilimento di Pietrarsa che difendevano il posto di lavoro, conclusasi con l'uccisione di alcuni di loro.
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