"Vengo considerata un'esponente della letteratura migrante, e mi sembra strano essere stata catapultata in questo universo. A me però, più che del mio essere figlia di un libanese e di una italiana, viene naturale parlare della mia esperienza lavorativa con i migranti: cerco di essere la portavoce delle loro esigenze": Leyla Khalil, classe 1991, scrittrice italo-libanese, non si sente una voce "altra" nel grande mare della letteratura italiana, ma una ragazza che, attraverso la sua scrittura e i suoi personaggi, avverte il bisogno di approfondire, scavare, indagare. Autrice nel 2015 del romanzo del romanzo Piani di fuga (Edizioni Ensemble), la giovane ha una formazione da mediatrice culturale e oggi insegna italiano agli immigrati a Padova. "Quando ero a scuola nascondevo la mia origine, e se mio padre mi dava per merenda dei cibi tipici libanesi io li mangiavo senza farmi vedere dagli altri. Ora invece c'è maggiore attenzione verso il migrante, ma molto credo sia dovuto a una certa retorica, più che a un interesse reale", racconta all'ANSA a bordo di Una Nave di Libri, la kermesse letteraria che Leggere:tutti e Grimaldi Lines organizzano in occasione della Giornata Mondiale del Libro, "mi sembra che stiamo assistendo alla moda dell'accoglienza, perché in realtà nessuno vuole avere vicino il migrante. I mondi restano divisi, è un atteggiamento radical chic". "Finché il migrante rimane l'altro rispetto a noi sarà difficile l'integrazione. I muri restano anche quando il proposito è buono e sembra che ormai tutti noi abbiamo dimenticato cosa significhi condividere", dice, sottolineando che sebbene non si possa generalizzare, "perché i migranti sono persone, e possono essere buone o cattive, tuttavia la maggior parte di loro è costretta davvero a scappare dalla propria terra per sopravvivere. Noi però o puntiamo il dito contro di loro per paura, o abbiamo un atteggiamento pietistico". "Nella mia classe tra le lingue che parlo io e quelle dei ragazzi a cui insegno si contano circa 19 idiomi: non è una ricchezza questa?", si chiede, mentre racconta di giovani che "non sanno con chi parlare e che si accorgono ogni giorno che nessuno vuole sedersi accanto a loro sul treno o sull'autobus".
"Serve curiosità nel rapportarsi alle loro vite: bisogna trattarli come persone non come simboli", dice, "prima di iniziare a lavorare con i migranti pensavo di avere già una mentalità aperta. Invece alcune delle loro storie mi hanno spiazzata. E oggi mi sento una privilegiata a essere entrata in contatto con loro". Anche se questo però non significa che i rapporti siano sempre facili: "A volte alcuni dei miei studenti sono rigidi, per esempio, per quanto riguarda la religione: ho avuto più difficoltà a parlare del mio essere atea, che della mia omosessualità", spiega. Vivendo in un contesto in cui non c'è posto per le semplificazioni, è naturale che i panni dell'autrice "migrante" le vadano stretti, dal momento che non c'è alcuna esigenza di apporre delle etichette alla sua scrittura. "Forse percepisco meno l'eredità storica dell'Italia, magari mi manca qualche riferimento a fatti che fanno parte del passato del Paese, ma la lingua mi appartiene completamente", racconta, "quando scrivo tendo a mescolare il linguaggio con vari registri linguistici, dal gergo ai termini colti. In fondo ogni strumento è utile per comunicare". Come accade in Piani di fuga, che "nasce come racconto breve quando ero ancora al liceo. Poi è diventato un romanzo, ma il nucleo della storia è lo stesso, con 2 ragazzi, ex compagni di scuola, che si incontrano in un autogrill.
Entrambi stanno fuggendo da qualcosa, hanno sete di libertà".
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