TASH AW, 'STRANIERI SU UN MOLO'' (ADD EDITORE, pp. 92 - 12,00 euro - Traduzione di Martina Prosperi).
Un libro, un lungo racconto leggero, ma di quella leggerezza di cui parlava Calvino nelle 'Lezioni americane', che si porta appresso senza parere contenuti importanti e anche pesanti, resi luminosi, trasparenti, e quindi anche chiarissimi, dal soffio della poesia, di uno sguardo semplice ma vero e pieno di umanità, perchè ogni parola è vissuta sulla propria pelle.
L'autore, Tash Aw è un giovane scrittore cino malese che parla mandarino e che vive ormai da tempo a Londra e scrive in inglese, il quale affronta il tema dell'essere migranti, del perdersi e del ritrovarsi, delle contaminazioni, dell'incontro tra culture, della paura delle differenze e della voglia di trovare somiglianze. Parla quindi di qualcosa che viviamo oramai tutto ogni giorno, eppure quel che lui ci racconta ci pare nuovo e illuminante e, se non consolatorio, che non c'è traccia di retorica in queste pagine, certamente capace di farci capire.
I suoi nonni erano cinesi, fuggiti negli anni Venti del Novecento in Malesia con in tasca solo un foglietto col nome e l'indirizzo di un lontano parente o di un vicino di casa di un tempo, ma senza avere la più pallida idea di dove questi fosse e quanto lontano da porto sconosciuto in cui sono sbarcati, così ''restano in piedi sulle banchine, cercando di capire dove andare. Stranieri, smarriti su un molo'', che è qualcosa di esistenziale, prima che di contingente. Sono le prime ore, i primi giorni e coloro che gli daranno un qualsiasi aiuto saranno ricordati con affetto per sempre, chiamati zie o zie tanto che le generazioni future non sapranno se si tratta di veri parenti o meno e i rapporti andranno disgregandosi.
Tash allinea con gran semplicità una serie di fatti quotidiani, di avvenimenti minimi eppure capaci di segnare un'esistenza e rende evidente quel ponte naturale che unisce i suoi antenati sperduti a lui cui, davanti al suo cinese, malese e inglese parlati correntemente, davanti al suo viso che porta in sé tutte quelle identità assieme e nessuna più così evidente, tutti chiedono sempre ''Tu da dove vieni?'', anche perché la Cina è un continente ricco di vertiginose differenze culturali e linguistiche, che per gli occidentali sono del tutto irrilevanti, non percepite.
Già la seconda generazione vive diversamente la propria storia, non ama ricordarla, e un giorno che suo padre pare aprirsi un po' di più, Tash annota che ''per loro è più facile godersi semplicemente le ricchezze che hanno adesso... il passato è doloroso, il presente è facile. E' una questione di praticità. Vogliono solo andare avanti. 'No - replica mio padre - non è praticità. E' vergogna''. Quindi inizia a raccontargli la propria infanzia, ma con la convinzione che siano ''storie noiose di gente povera'', mentre per il nostro autore, che ce le riferisce, diventano una vera ricchezza la chiave umana, non teorica e ideologica, per capire chi sono stati e chi sia lui e come li percepisca la gente che ha attorno. ''Ma noi siamo migranti'' è il commento del nonno davanti a qualsiasi difficoltà, ingiustizia, incomprensione ''vedendole come componenti normali della propria esistenza'' e la conclusione di questo diario intimo è che : ''Nell'accettazione senza riserve di quello che considerava il proprio destino, vidi d'un tratto la ragione per cui non sarei mai riuscito a comunicare con lui... Lui era un immigrato. Io ero il nipote di un immigrato. Non avremmo mai avuto lo stesso sguardo sul mondo''.
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