DAVIDE FERRARIO, SCHERMA, SCHERMO, IL REGISTA DIETRO LA MASCHERA (ADD EDITORE, PP. 160, EURO 13) Cosa hanno in comune uno schermidore che si cala la maschera sul viso prima di affrontare il duello con il suo rivale e l'immaginario del cinema? Tantissimo, se a raccontarci storie e filosofia di scherma e di schermo, in un libro autobiografico pieno di ironia, di ritmo, aneddoti e riflessioni è il regista, sceneggiatore e scrittore Davide Ferrario, nel cui cuore si accavallano le passioni per la pedana e per i film. O meglio, innanzitutto per la scherma, perché - spiega l'autore - se qualcuno gli chiedesse quale è stata l'esperienza fondante della sua vita, risponderebbe senza esitazione il combattimento sulla pedana, e "in seconda battuta, il mondo del cinema, che senza la scherma non sarebbe stato la stessa cosa".
Davide Ferrario racconta la scherma come farebbe in un film, partendo da un primissimo piano su un atleta fermo in pedana per poi allargare l'inquadratura, andando avanti e indietro nel tempo: un'arte incontrata da adolescente, un po' dimenticata per i casi della vita, ma poi meravigliosamente riscoperta e mai più abbandonata, fino ad arrivare ai "titoli di coda" con il terrore del finora esorcizzato ultimo combattimento. Sulla pedana si impara a conoscere se stessi, e la maschera, confine tra il "sé" e il mondo, è una porta che si apre e si chiude su un'altra dimensione. Esattamente quello che succede quando si spengono le luci in sala.
Perché in fondo scherma e schermo si incrociano di continuo, pensa Ferrario. Come la maschera nello spazio della lotta, anche lo schermo del cinema è uno schermo di difesa. "Difende dalle paure, dai desideri, dai sogni troppo forti e dagli incubi.
Come? Trasformandoli in immagini tirate fuori dal pozzo nero del subconscio e neutralizzandole in storie", per piangere, ridere, riflettere, innamorarsi. Nella scherma come nel cinema vi è poi l'essenzialità del tempo e della misura, "senza il controllo dei quali non è possibile né essere un buon tiratore né essere un buon regista", spiega Ferrario.
"Il tempo, innanzitutto. Tutti credono che il cinema sia un'arte visiva. Non è così. Il cinema è l'arte di costruire il tempo. E' il tempo la materia del cinema, come il marmo quello dello scultore. E nelle mani dell'autore la materia prende una forma". Ugualmente "Senza senso del tempo, uno schermidore è niente". Tra i tanti episodi di una vita trascorsa tra la pedana e il set, l'incontro con Bebe Vio e finale a sorpresa. Quando Ferrario la conobbe, cinque anni fa, non era il personaggio di oggi. Ferrario si offrì volontario per "tirare" con lei. La sua idea era "di tirare piano", far durare l'assalto il più a lungo possibile, lasciarle mettere qualche stoccata, arrivare al 4-4 e magari giocarci l'ultima stoccata con il retropensiero di farmela mettere". "Dopo 17 secondi - racconta nel libro - eravamo tre a zero per lei. Semplicemente, in pedana neppure riuscivo a vederla. Troppo veloce, altro che buon samaritano.
Dovetti fare appello in brevissimo tempo a tutte le mie risorse per metterle la prima botta e non rischiare il cappotto, ma il duello finì comunque 5-2 per lei. Non potevo ricevere una lezione migliore sulla disabilità". Davide Ferrario dirige film e documentari, tra gli altri: Tutti giù per terra, Figli di Annibale, Dopo mezzanotte, La luna su Torino e i documentari La strada di Levi (2017), Piazza Garibaldi (2011) e La zuppa del demonio (2014). Il suo primo romanzo Dissolvenza al nero, Premio Hemingway 1995, è stato portato sullo schermo da Oliver Parker. Sangue mio è il suo ultimo romanzo (Feltrinelli, 2010).
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