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Nadia Murad, L'ultima ragazza

Nadia Murad, L'ultima ragazza

Il racconto dell'orrore e della salvezza ne L'ultima ragazza

ROMA, 14 aprile 2018, 13:00

Redazione ANSA

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- RIPRODUZIONE RISERVATA

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(di Marzia Apice) NADIA MURAD, L'ULTIMA RAGAZZA. STORIA DELLA MIA PRIGIONIA E DELLA MIA BATTAGLIA CONTRO L'ISIS (Mondadori, pp.334, 20 Euro). Nadia Murad a vent'anni aveva il sogno di truccare e pettinare le spose, e di aprire, magari dopo gli studi, un proprio salone di bellezza. Invece nel 2014 i miliziani dell'Isis sono arrivati a Kocho, il villaggio dove abitava nell'Iraq settentrionale, hanno ucciso gli uomini, fatto scomparire le donne anziane, e rapito lei con le altre ragazze e i bambini, compiendo un vero e proprio genocidio ai danni della sua comunità, gli yazidi, considerati dal Califfato adoratori del diavolo. Divenuta schiava sessuale e provando sulla sua pelle l'ignobile orrore dello stupro come arma di guerra, Nadia è poi miracolosamente riuscita a scappare: nell'autobiografia "L'ultima ragazza", edita da Mondadori (con prefazione di Amal Clooney, il suo avvocato) ha narrato il suo calvario, senza omettere nulla di ciò che ha subito affinché il mondo sapesse. Mentre era prigioniera, la ragazza è stata continuamente umiliata, brutalizzata, stuprata anche in gruppo: un inferno che sembrava senza fine e che ha minato la sua mente e il suo corpo, ma non ha distrutto la sua dignità né il suo istinto di sopravvivenza, anche se più di una volta ha invocato la morte come unica fonte di liberazione.
    "A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio", scrive Nadia, e il sangue si gela mentre il suo racconto si dipana pagina dopo pagina. Le sue parole, la cui semplicità colpisce come uno schiaffo in faccia, descrivono minuziosamente tutto il suo mondo in trasformazione: quello precedente alla cattura, fatto di povertà e di giornate piene di lavoro, ma anche del grande collante della famiglia, di sogni e di affetti sinceri, e quello crudele del califfato, buio e privo di ogni umanità. Fino ad arrivare alla liberazione, dovuta a un caso fortuito: quando il suo carceriere per disattenzione non ha chiuso a chiave la porta della casa di Mosul in cui era prigioniera, Nadia ha colto l'occasione ed è fuggita, trovando in sé un insperato coraggio. Nemmeno la paura della ritorsione l'ha fermata, pur avendo già conosciuto, dopo un altro tentativo di fuga, il modo crudele con cui l'Isis punisce chi osa provare a scappare.
    Un coraggio, il suo , che l'ha portata a chiedere aiuto bussando a una porta a caso mentre Mosul era piena di terroristi: Nadia quegli uomini senza onore né anima li ha di fatto sfidati e li ha vinti, ed è riuscita a salvarsi ricongiungendosi con quello che resta della sua famiglia.
    Nonostante la cronaca ci abbia già messo di fronte alla barbarie dell'Isis, è comunque difficile seguire il racconto di violenze indicibili che nessun essere umano dovrebbe mai provare: nella vicenda di Nadia c'è il dolore di tutto un popolo, annientato dal fondamentalismo religioso e dall'ignoranza criminale dei terroristi mentre il mondo restava a guardare senza poter o voler fare niente. E oggi che è ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite (è stata anche candidata anche al premio Nobel per la pace e ha vinto il premio Sakharov 2016), la ragazza persegue con tenacia il duplice obiettivo di divulgare il più possibile lo sterminio di migliaia di yazidi e di veder processati i suoi aguzzini. Una prima vittoria l'ha già ottenuta, con il Consiglio di Sicurezza dell'Onu che ha istituito un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell'Isis. La strada per ottenere giustizia è ancora lunga, ma intanto il cammino è iniziato.
   

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