“Vado via dall’Italia, ma finalmente potrò guidare il top che viaggia nei cieli”.
Quarant’anni compiuti, il cliché da combattere del pilota alto, moro e dagli occhi azzurri e la decisione di dire addio all’Italia e ad Alitalia per cercare di fare carriera. Di superare il gradino di primo ufficiale, quello di co-pilota, e potersi finalmente sedere alla cloche di comando di un Boeing 777, “un aereo divertente ed emozionante, che si guida usando molto il cervello, non a caso è stato progettato da ingegneri e piloti insieme. Non come l’Airbus, al quale hanno lavorato solo ingegneri e nel quale i computer hanno un peso preponderante. E’ con l’Airbus che anche i cinesi hanno imparato a volare”, racconta sorridendo.
La militanza nella compagnia di bandiera è lunga: “Sono stato sedici anni e mezzo in Alitalia. Ma ho iniziato a guardare al medio oriente ed agli emiri in particolare nel 2008: dopo il primo fallimento ho pensato per la prima volta in modo serio a Emirates ed Etihad”. Col tempo, “mi sono reso conto che, allora, mi raccontavo ogni genere di scusa per evitare di provarci seriamente. Quest’estate, con la prospettiva di un nuovo fallimento davanti, sono tornato ad Abu Dhabi e ho scoperto che non era così male come mi raccontavo sei anni fa. Ed allora ci ho ripensato. Nel piano prospettato da Alitalia c’erano 150 esuberi per i piloti ed Etihad ne cercava 100: all’inizio fra noi si sono presentati solo in 10, così è stato proposto come incentivo la possibilità di avere 3 anni di aspettativa. Non ci ho pensato più sopra e ho partecipato al primo bando indetto da Etihad”.
E dopo sedici anni si è rimesso in gioco: “Le selezioni sono complicate da un punto di vista tecnico, sono difficili e selettive. Anche se, alla fine, le cose che gli interessavano veramente erano due: un ottimo inglese e la capacità di porsi di fronte alle persone, la ‘attitude’ come dicono loro”. E com’è la sede ad Abu Dhabi? “Grande”, dice con un sorriso. “E’ una compagnia medio-piccola che si sta espandendo a dismisura . Pensa che a livello burocratico fanno fatica a star dietro a tutte le novità”.
Ma qual è stata la vera molla che ti ha convinto ad abbandonare tutto e partire verso Oriente?
“Un semplice calcolo matematico. Per fare carriera servono due cose: o che la tua compagnia compri aerei oppure che vadano in pensione quelli più anziani di te. Per quanto riguarda il primo punto, per ogni aereo di lungo raggio servono circa 6 comandanti e 8 ufficiali in seconda. Da qui al 2020 Alitalia ha in progetto di comprare 7 nuovi aerei. Etihad ne ha messi in conto oltre 200. Vuol dire che in Alitalia serviranno altri 42 comandanti: ad Abu Dhabi circa 1.200. Senza considerare la scia di prepensionamenti da noi che di fatto rende praticamente inutile aspettare la pensione dei colleghi più vecchi, che al massimo ora hanno poco più di 50 anni”.
Resta difficile credere che si possano cancellare 16 anni così, senza che rimanga qualcosa dentro.
“No. È impossibile, perché Alitalia mi ha dato tantissimo. A livello professionale siamo tra i migliori al mondo. Praticamente nessuno di noi avrebbe problemi ad adattarsi in qualsiasi compagnia scegliesse di andare”.
E allora qual è il problema?
“Che Alitalia è un po’ il simbolo dell’Italia: immense capacità a livello personale che non riescono ad essere fatte funzionare bene a livello di insieme”.
E pensi che Etihad ci riesca?
“Lì il mondo è decisamente più semplice. C’è una visione del lavoro molto americana: ti viene richiesto qualcosa che devi fornire e vieni giudicato su quello. Tutte le eccedenze e interferenze esterne sono tagliate”.
Ma lo sa che sta andando a lavorare in un posto dove non esiste il diritto allo sciopero?
“Finalmente vado in un posto dove non c’è”, ribatte con ironia amara. “Come lo stiamo facendo noi in Alitalia di fatto non c’è già più il diritto allo sciopero. Praticamente non ne facciamo uno di tutte le categorie dal 2008”.
E il contratto? Anche questo è sulla base americana: la prassi non è decisamente il contratto a tempo indeterminato.
“Io ho un contratto di 3 anni”. E poi? “E poi non mi sono posto il problema. Ma so già che l’ottica è quella del ‘se mi servi ti tengo, sennò ciao’. Lì sei ospite e devi guadagnarti l’ospitalità ogni giorno. E ogni giorno, anche camminando per strada, te lo possono far notare”.
In che senso?
“Che comunque gli arabi si sentono i proprietari del Paese, sono loro che ti stanno ospitando. Ma, ad esempio, i piloti di Etihad sono trattati profondamente bene. Non come in Italia dove spesso siamo considerati dei viziati, pigri e svogliati a prescindere da come ci comportiamo e lavoriamo. Se nel 2008 un articolo dell’Espresso ci aveva inserito nella ‘casta’, si può dire che negli Emirati forse una casta la siamo davvero”, sottolinea con ironia.
Mi sembra decisamente determinato nella sua scelta.
“Sì, tanto che al momento non ho nessun progetto di tornare in Italia. Anche perché ho veramente ben poche cose che mi mancheranno, le amicizie e la famiglia. Ma se penso al mio futuro lo vedo molto più roseo ad Abu Dhabi che a Roma”.
E i figli?
“I figli li porto via da qui”, risponde con un tono che non lascia molto spazio all’immaginazione.
E il dramma di tutti gli italiani all’estero? La cucina italiana?
“Ho già visto una casa che potrebbe andare bene e di fronte c’è una catena di supermercati presente anche in Italia. Penso di poter sopravvivere benissimo, anche se forse sentirò la mancanza di un buon bicchiere di vino ad un prezzo normale”.
Ma c’è qualcosa che non le mancherà per niente dell’Italia?
“La grettezza di molte persone. Il loro giudicarti dal ruolo che ricopri e non dal modo in cui ti comporti. E così finisci non poter essere mai te stesso fino in fondo”.
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