(di Domenico Conti)
Prima lo stop alla Cina che chiedeva
lo status di economia di mercato, poi la doccia fredda della
Brexit, infine il trattato transatlantico di libero scambio
Usa-Ue (Ttip) che finisce nel congelatore. E' la rivincita della
gente nei confronti di trattati calati dall'alto, nati su misura
per le multinazionali e negoziati da elite distanti problemi
quotidiani. Negli Usa, con le elezioni alle porte, hanno fiutato
l'aria, e ora c'è un "clima glaciale" sui trattati commerciali.
La vede così Alberto Forchielli, finanziere e commentatore
italiano sempre in giro fra la Cina, gli Usa e l'Europa per
Mandarin Capital, il fondo di private equity di cui è fondatore
e managing partner. Che premette: "un giudizio sintetico sul
Ttip è impossibile", troppi i settori investiti,
dall'agricoltura all'high tech all'alimentare. Ma al di là del
merito, che vede ampie divisioni ideologiche, il segnale
arrivato nei giorni scorsi dalla Francia e dal ministro dello
Sviluppo economico Carlo Calenda sembra essere chiaro: non si
chiuderà mai prima delle elezioni americane. E proprio quelle
elezioni, che vinca Hillary Clinton o Donald Trump, promettono
di mettere il sigillo finale su un trattato di cui Roma e
Berlino si erano fatte decise sostenitrici assieme
all'amministrazione Obama.
La crescita economica, racconta al telefono Forchielli, "è
storicamente associata all'intensificarsi del commercio
internazionale". E c'è bisogno di rilanciarla un po' ovunque di
questi tempi in cui si parla sempre più di 'stagnazione
secolare'. Ma purtroppo "i grandi trattati commerciali non hanno
mai rispettato completamente gli obiettivi che si erano prefissi
di fronte agli elettori". E' il caso eclatante del Nafta (per il
Nord America) o dell'ingresso della Cina nel Wto, che ha portato
l'impatto dirompente dell'invasione cinese di beni a bassissimo
costo disponibili con un click su internet.
Trattati che hanno risvolti positivi dal punto di vista
macroeconomico. Ma anche due pecche fondamentali, ben raccontate
da chi per mestiere accompagna le imprese europee in un mercato
complicatissimo come la Cina. "Storicamente, sono trattati che
non vengono in mente alla gente comune ma alle grandi
multinazionali, i primi ad accorgersene sono loro". Rendere
omogenei gli standard commerciali e produttivi in Europa e Usa
significa aumentare i profitti, che però non necessariamente
vengono passati ai consumatori e lavoratori in maniera
simmetrica.
E qui sta il secondo 'vulnus' e l'ondata di malcontento
popolare che ha indotto a un ripensamento: il punto di partenza
è quello delle elite economico-finanziarie. Più crescita e
opportunità, certo, ma attenzione a pensare che le economie
funzionino come nei libri, che chi perde il lavoro a
Philadelphia a causa del libero scambio lo trovi il giorno dopo
facendo armi e bagagli e trasferendosi a Seattle. Il segnale è:
"quando fate accordi e ci dite che sono nel nostro interesse,
mai poi si rivelano una fregatura, come successo in passato, non
ci crediamo più".
Come con Brexit o lo stop alle trattative con la Cina,
scricchiola la globalizzazione, che poi è la forza economica
trainante degli ultimi decenni. In Europa i governi esitano. A
Washington, racconta Forchielli, 2-3000 lobbisti sono stati
impegnati sul Ttip, praticamente ogni rappresentante del
Congresso è tampinato da due o tre di loro, da 'big tobacco'
alla farmaceutica. Ma Donald Trump ha fatto un cavallo di
battaglia di questo malcontento che parte dal basso, e ha già
detto che metterà le tariffe sull'export cinese. E la stessa
Clinton, che ne era una ferma sostenitrice, "ha dovuto fare
marcia indietro. C'è un clima sempre più sfavorevole ai trattati
commerciali".
E' così che il Ttip è diventato un cavallo perdente. E, da
Roma a Parigi, ora si corre ai ripari viste le sfide pressanti
della politica, dal referendum di ottobre al crollo di
popolarità di Hollande.
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