Dalla guerra commerciale alla 'guerriglia' fatta di azioni dimostrative, pressioni e sonori schiaffoni simbolici al G7 o all'Europa di Angela Merkel. Dalla protezione nazionalistica dei disoccupati 'deindustrializzati' della Rust Belt alle lobby finanziarie che riaffermano il proprio potere a Washington, nel nome della deregulation. Dopo i primi mesi dalla sua elezioni, segnati dagli slogan dell'addio al Nafta e della border tax, del piano di rilancio economico fatta di detassazione e investimenti, Donald Trump torna con i piedi per terra. Per farsi rieleggere non può dire di no alle lobby, che in definitiva difendono la globalizzazione. Ma qualche promessa, fatta nel nome dell' 'America First', dovrà mantenerla. La tattica del presidente degli Usa in questo difficile equilibrio fra populismo e realismo sta già prendendo forma.
Dopo il momento di celebrità di personaggi come Peter Navarro e Steve Bannon, a Washington adesso comandano liberisti come Gary Cohn, peso massimo di Goldman Sachs ora a capo dei consiglieri economici di Trump. O come David Malpass, vecchia volpe repubblicana, capo economista di Bear Stearns noto per aver rassicurato sulla crisi finanziaria poco prima del collasso e ora potente sottosegretario al Tesoro per gli affari internazionali in grado di oscurare il segretario Steven Mnuchin. "E' Gary Cohn a fare il bello e il cattivo tempo", dice Alberto Forchielli, partner fondatore di Mandarin Capital. "Mentre gli americani seguivano l'audizione di Comey, quatti quatti hanno già disfatto il Dodd-Frank", la stretta voluta da Obama contro l'iper-finanza speculativa dopo Lehman Brothers. Insomma, finito il tempo degli attivisti come Bannon, ora "la leva del potere ce l'ha questo gruppo, sta tornando la politica classica neoliberal", dice Forchielli al telefono da Boston. Che cosa ne è dei dossier di cui Trump aveva fatto una bandiera, ora che la grande finanza, necessariamente globalista, riprende le redini a Washington? Partiamo dal protezionismo, che tanti voti aveva portato a Trump ma è fumo negli occhi per multinazionali e grande finanza. Abolire il Nafta? "al massimo qualche aggiustamento" tenendo conto delle innovazioni del Ttip fra Usa e Ue saltato un anno fa, racconta Forchielli. Trattato, quest'ultimo, vilipeso da Trump e rinnegato dai democratici prima del voto ma che ora potrebbe resuscitare: "se e quando gli Usa riapriranno il negoziato sul Ttip con l'Ue è uno dei punti sul tavolo".
Neanche la 'border tax', altro piatto forte della campagna Trump, sembra destinata a sopravvivere: "non se ne farà niente", prevede l'economista ed esperto di commercio estero. Washington osserverà con grande attenzione la Ue e il rischio che questa ceda alle pressioni di Pechino che vuole lo status di economia di mercato. Cercherà di limitare le importazioni di acciaio e alluminio con 230 contenziosi aperti. Farà una rumorosa guerriglia al Wto, le cui regole sono percepite come dannose per gli interessi Usa. Ma non sembra all'orizzonte una rinegoziazione di quell'istituzione, né, come sarebbe logico secondo Forchielli, una riduzione della corporate tax al 15% dal 39%, da molti giudicata l'unica misura che potrebbe aiutare le aziende Usa di fronte alla concorrenza di costo del Messico o della Cina.
Un bel dietrofront rispetto alle promesse elettorali, a meno di svolte sul fronte delle valute. Che sarà però accompagnato da una litigiosità continua, dalla guerra a bassa intensità già vista nelle divisioni sul trattato di Parigi per il clima o sui migranti al G7 di Taormina: "Trump continuerà a fare un gran fracasso salvaguardando i consumatori, Wall Street e le multinazionali americane". Senza nascondere il suo "tratto personale di profonda antipatia per la Germania, capofila di una politica europea vista malissimo da chi ha il potere a Washington". "Europa e Cina saranno i più tartassati", dice Forchielli, con ritorsioni anche verso singole aziende straniere, attacchi al multilateralismo che passeranno anche dal Fondo monetario internazionale, strappi come quello di Taormina o quello appena visto all'Ocse dove gli Usa si sono rifiutati di sottoscrivere un comunicato congiunto su commercio, investimenti e clima. Per la Germania della Merkel, che propone un piano per l'Africa al G20 di Amburgo a luglio, non sarà piacevole: "continueranno a trattarla a pesci in faccia".
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