La battaglia di Nadia Murad, personale e di divulgazione al mondo di quello che ha significato in termini di violenze il regime dell'Isis, vede oggi il riconoscimento del Nobel per la pace. La Murad, che ha scritto un'autobiografia, 'L'Ultima ragazza' (pubblicata da Mondadori quest'anno) con la prefazione del suo avvocato Amal Alamuddin Clooney, è un simbolo delle sofferenze al limite del genocidio subite della sua comunità, gli yazidi, considerati dal Califfato adoratori del diavolo.
A vent'anni aveva il sogno di truccare e pettinare le spose, e di aprire, magari dopo gli studi, un proprio salone di bellezza. Invece nel 2014 i miliziani dell'Isis sono arrivati a Kocho, il villaggio dove abitava nell'Iraq settentrionale, hanno ucciso gli uomini, fatto scomparire le donne anziane e rapito lei con altre ragazze e bambini. Divenuta schiava sessuale e provando sulla sua pelle l'ignobile orrore dello stupro come arma di guerra, Nadia è poi miracolosamente riuscita a scappare. Nell'autobiografia ha narrato il suo calvario, senza omettere nulla di ciò che ha subito affinché il mondo sapesse. Mentre era prigioniera, la ragazza é stata continuamente umiliata, brutalizzata, stuprata anche in gruppo: un inferno che sembrava senza fine e che ha minato la sua mente e il suo corpo, ma non ha distrutto la sua dignità, né il suo istinto di sopravvivenza, anche se più di una volta ha invocato la morte come unica fonte di liberazione.
"A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio", scrive Nadia, e il sangue si gela leggendo il suo racconto. Le sue parole, descrivono minuziosamente tutto il suo mondo in trasformazione: quello precedente alla cattura, fatto di povertà, di giornate piene di lavoro, di vita familiare ma anche di sogni e di affetti sinceri, e quello crudele del Califfato, buio e privo di ogni umanità. Fino ad arrivare alla liberazione, dovuta a un caso fortuito: quando il suo carceriere per disattenzione non ha chiuso a chiave la porta della casa di Mosul in cui era prigioniera, Nadia ha colto l'occasione ed è fuggita, trovando in sé un insperato coraggio. Nemmeno la paura della ritorsione l'ha fermata. Un coraggio, il suo, che l'ha portata a chiedere aiuto bussando a una porta a caso mentre Mosul era piena di terroristi: Nadia quegli uomini senza onore né anima li ha di fatto sfidati e li ha vinti, ed è riuscita a salvarsi ricongiungendosi con quello che resta della sua famiglia. Diventata ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite (ha vinto anche tra gli altri il premio Sakharov 2016 e Donna dell'anno 2016) la giovane persegue con tenacia il duplice obiettivo di divulgare il più possibile lo sterminio di migliaia di yazidi e di veder processati i suoi aguzzini come Abu Omar, il famigerato Barba Bianca. Una prima vittoria l'ha già ottenuta, con il Consiglio di Sicurezza dell'Onu che ha istituito un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell'Isis.
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