Nessun genocidio contro i Rohingya, piuttosto una "incompleta e fuorviante descrizione fattuale della situazione". La difesa di Aung San Suu Kyi all'Aja ha ricalcato oggi la linea che la leader di fatto della Birmania tiene da due anni: le "operazioni di ripulitura" dell'esercito birmano nel 2017 erano dirette contro "terroristi", e se abusi ci sono stati, lasciate che siano le corti militari birmane a occuparsene. Una posizione che conferma il distacco ormai netto tra il negazionismo del premio Nobel per la Pace e le svariate prove di crimini di massa raccolte da schiere di osservatori indipendenti. Suu Kyi, 74 anni, ha parlato per quasi mezz'ora alla Corte internazionale di giustizia dell'Onu, dove ieri sono iniziate le udienze per il procedimento iniziato del Gambia contro la Birmania, accusata di aver violato la Convenzione contro il genocidio. Ieri, il ministro della Giustizia del piccolo Paese africano musulmano aveva elencato i crimini contenuti in un rapporto dell'Onu dell'anno scorso: "Omicidi, torture e stupri di massa", oltre a "bambini bruciati vivi nelle loro case e in luoghi di culto", per un totale di almeno 10 mila morti e oltre 700 mila uomini, donne, vecchi e bambini fuggiti oltre confine in Bangladesh e da allora rinchiusi in squallidi campi profughi, con i loro villaggi rasi al suolo. 'La Signora' ha definito le violenze nello stato Rakhine, nell'ovest della Birmania, "un conflitto armato interno" tra l'esercito a un gruppo di militanti musulmani, l'Esercito di salvezza nazionale dei Rohingya (Arsa), che nell'agosto 2017 aveva attaccato alcune postazioni delle forze di sicurezza causando oltre una dozzina di morti. La situazione nel Rakhine "è complessa" e costituisce "una sfida alla sovranità", ha detto Suu Kyi, che guida il governo dal 2016, concludendo che "l'intento genocida non può essere la sola ipotesi". Una posizione largamente attesa, e che la Corte potrebbe accogliere: comprovare l'accusa di genocidio è stato possibile solo nel caso della Cambogia di Pol Pot, del massacro dei tutsi in Ruanda e di quello di Srebrenica in Bosnia. Ma l'allineamento di Suu Kyi con un esercito accusato di aver fatto terra bruciata - lo stesso che la tenne agli arresti domiciliari per 15 anni quando sfidava la dittatura - è l'immagine simbolo di quanto la reputazione della 'Signora' sia ormai ai minimi agli occhi dei suoi tanti ex sostenitori. Colpiscono l'impassibilità di ieri nell'ascoltare il racconto di tali orrori, l'altezzosità con cui oggi rimproverava gli osservatori non birmani di non capire la storia di quei luoghi, per non parlare dell'ingenuità nel chiedere di lasciare che le corti birmane valutino gli abusi di un esercito che gode di sostanziale impunità in patria, e sul quale Suu Kyi non ha di fatto potere. Tale linea dura contro i Rohingya è popolare tra la popolazione in maggioranza buddista, che teme il futuro rimpiazzo demografico dei musulmani. E il prossimo novembre la Birmania tornerà ad elezioni.
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