(di Francesco Cerri)
"Non ho più dormito né mangiato, ero preso da crisi di nervi e da nausea - scrive nel 1915 il console a Trebisonda Giovanni Gorrini - al tormento di dovere assistere all'esecuzione di massa di innocenti. Le crudeli cacce all'uomo, le centinaia di cadaveri sulle strade, donne e bambini caricati sulle navi e annegati, le deportazioni nel deserto: sono ricordi che mi tormentano l'anima e quasi fanno perdere la ragione".
Quella di Gorrini fu una delle poche voci critiche che si alzarono nell'anno dell'inizio dei massacri per denunciare il genocidio in atto di centinaia di migliaia di cristiani armeni ordinato dal governo dei 'Giovani Turchi'. Una strage programmata, secondo numerosi storici, e scattata nella notte fra il 24 e il 25 aprile 1915 con l'arresto a Costantinopoli di 250 dirigenti della comunità armena, poi assassinati.
Nell'Impero Ottomano del sultano Abdulhamid II sono al governo i Giovani Turchi (Cup), i nazionalisti islamici pan-turchi fautori di una Turchia etnicamente omogenea.
L'influente minoranza armena, 2 milioni di persone, da 3mila anni radicata soprattutto nelle regioni anatoliche dell'allora Armenia Occidentale, è un ostacolo al loro progetto di una "Grande Turchia".
Da un anno è iniziata la Prima Guerra Mondiale, che vede la Sublime Porta schierata con Germania e Austria. Dopo la prima grande sconfitta contro la Russia a Sarikamich, nel gennaio 1915, stampa e governo denunciano i "traditori" armeni, accusati di stare con Mosca. In febbraio il ministro della Guerra, Enver Pascià, ordina il disarmo di migliaia di soldati armeni. Saranno destinati prima ai lavori forzati, poi eliminati. Per ordine dei vertici Cup in aprile scatta l'operazione sterminio, pilotata dal ministro degli interni, Talaat Bey, e affidata all' Organizzazione Speciale (Os), formata da mercenari curdi, emigrati musulmani da Balcani e Caucaso, criminali amnistiati.
"Non dobbiamo preoccuparci di ciò che ci verrà chiesto fra 3-4 anni. Se agiamo con raziocinio e decisione non esisterà più un problema armeno. Non ci saranno più gli armeni", scrive Enver Pascià a Talaat Bey.
Da aprile a ottobre inizia la feroce pulizia etnica delle sei province armene che dura fino al 1916: Van, Erzurum, Bitlis, Diyarbakir, Sivas, Mamuret ul Aziz. Gli uomini sono uccisi subito. Centinaia di migliaia di civili devono lasciare case e proprietà - su cui mettono le mani stato o coloni turchi - e sono gettati sulle strade della deportazione verso i campi di concentramento del deserto di Der-Es-Zor, nella Siria ottomana.
Solo fra aprile e ottobre - ricorda su Le Monde Gaidz Minassian - sono 1,2 milioni. Lungo la strada prosegue lo sterminio.
Massacri collettivi, decapitazioni, stupri, torture. Sono usati anche vagoni piombati per il bestiame. Migliaia di bambini cristiani vengono affidati di forza a famiglie musulmane turche.
Foto raccolte dal Centro per la Memoria Armena (Aram) di Marsiglia mostrano miliziani in posa sorridenti dietro alle teste degli armeni che hanno decapitato, uomini e donne impiccati, deportati scheletrici.
Le tecniche usate per lo sterminio prefigurano quanto avverrà nel Terzo Reich nazista. Per diversi studiosi il genocidio armeno apre la strada a quello degli ebrei 25 anni dopo. "Siate duri, spietati, agite più in fretta e più brutalmente degli altri", disse nel 1939 Adolf Hitler ai capi dell'esercito citando l'esempio del genocidio armeno, che "il mondo non solo ha dimenticato ma anche accettato". Per lo storico Howard Sachar "il Fuehrer citò il genocidio 20 anni dopo che era stato perpetrato, approvandolo, perché considerava la soluzione armena come un precedente istruttivo". I responsabili rimasero impuniti. Alla fine della guerra fuggirono in Germania.
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