L'espansione dello Stato islamico (Isis) in Libia, a poche ore di viaggio dalle coste italiane, è in parte uno dei "bocconi avvelenati" lasciati nel Mediterraneo dalla strategia del deposto e defunto presidente libico Muammar Gheddafi, che sin dagli anni '90 e ancor di più dai primi anni 2000, col consenso implicito di Stati Uniti e di alcune potenze occidentali, ha controllato i movimenti estremisti tradizionalmente basati in Cirenaica.
Secondo la ricostruzione, supportata da una nutrita cronologia di fatti accertati, offerta da Lorenzo Declich, già docente all'Università Orientale di Napoli e uno dei massimi studiosi italiani di jihadismo, gli eventi che in queste ore insanguinano il golfo della Sirte erano prevedibili, almeno dallo scoppio della guerra in Libia quattro anni fa. E sono l'esito di una catena di responsabilità libiche, arabe e occidentali di cui Gheddafi "è l'ultimo cruciale anello".
In una conversazione con l'ANSA, Declich ricorda che "i jihadisti che oggi in Libia combattono in nome dell'Isis non sono altro che i sopravvissuti del jihadismo storico della Cirenaica, dei combattenti mandati in Iraq a partire dal 2003, di alcuni detenuti della prigione Usa di Guantanamo e di diversi terroristi rimessi in libertà da Gheddafi a partire dal 2009 e fino alla vigilia delle manifestazioni popolari anti-regime del febbraio del 2011". Tra questi spicca il nome del libico Abu Sufyan ben Qumu, già coinvolto nell'attacco alla missione diplomatica Usa di Bengasi. Dopo aver passato anni a Guantanamo, gli americani lo consegnano a Gheddafi nel 2008. E nell'ottobre del 2011, poco prima della caduta di Tripoli, viene misteriosamente rilasciato. Poco dopo - afferma Declich - ben Qumu figura come il leader di Ansar Sharia, un gruppo qaedista che ha poi giurato fedeltà all'Isis. Dal 2009 le autorità libiche avevano rilasciato circa 850 terroristi, tra cui Nasser Taylamun, indicato come uno degli autisti di Osama bin Laden, Abdelhakim Belhaj, Khaled Shrif e Sami Saadi, rispettivamente leader, capo militare e ideologo dell'allora ala qaedista libica.
In precedenza, i servizi di sicurezza di Tripoli avevano facilitato la partenza di questi e di altri jihadisti verso l'Iraq post-Saddam. Alcuni tornano in Libia proprio per partecipare, sotto il vessillo qaedista, alla guerra scoppiata nel 2011. La pericolosità dello scenario libico è anche data dalla proliferazione di armi provenienti dall'arsenale di Gheddafi. Declich sottolinea come "gran parte di queste armi sono finite nelle mani dei contrabbandieri e di diversi gruppi della galassia jihadista dentro e fuori la Libia". Lo studioso italiano evoca anche il più recente coinvolgimento di attori esterni, come il Qatar, che ha ospitato Belhaj, il "jihadista-mercenario" usato anche nella guerra sporca in Siria, e che "aveva guidato alla conquista di Tripoli la propria fazione sponsorizzata da Doha". Bisogna inoltre considerare - prosegue Declich - che l'est della Libia è da decenni terra di contrabbando: è un porto sicuro per traffici di ogni tipo e sin dagli anni '90 è la culla del jihadismo libico. Un'altra zona grigia della Libia nel caos sono le sue regioni a sud e sud-ovest. Qui, il qaidismo ha trovato corpo in organizzazioni terroristiche dell'Africa subsahariana e nei nuovi legami tra diversi rami africani del jihadismo: gli Shabaab somali, Boko Haram in Nigeria, i jihadisti in Mali.
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