Quando, quanto e come tagliare le
emissioni di gas serra: detta in soldoni, la questione sul
tavolo del summit di Parigi è questa. E i soldi c'entrano
eccome, perché un'economia 'carbon free' costa, anche se
promette un buon ritorno d'investimento. In ballo, tra l'altro,
ci sono 100 miliardi di dollari all'anno sino al 2020 che le
nazioni ricche dovrebbero dare a quelle povere per far sì che la
loro crescita non poggi sui combustibili fossili, com'è avvenuto
in Occidente con due secoli di industrializzazione "sporca". Da
Parigi dovrebbe uscire un accordo più che un trattato in questo
senso, come ha annunciato il ministro degli Esteri francese,
Laurent Fabius, che presiederà il summit, in quella che è una
concessione alle richieste Usa (in caso di trattato il
presidente Obama dovrebbe sottoporlo al voto del Congresso). "Ma
alcune delle clausole saranno comunque legalmente vincolanti,
non stiamo facendo letteratura", ha detto Fabius al Financial
Times. Progressi sul fronte delle emissioni sono stati già
fatti, tanto che la 'decarbonizzazione' sembra una strada senza
ritorno ormai imboccata (il nodo è la velocità a cui
percorrerla). Nel 2014 le emissioni globali sono aumentate solo
dello 0,5% totalizzando 35,7 miliardi di tonnellate di CO2. Per
il 61% di questo carbonio i colpevoli sono soltanto quattro:
Cina (30%), Stati Uniti (15%), Ue (10%) e India (6,5%), che sono
anche i Paesi con il peso maggiore al tavolo negoziale della
Cop21. L'Unione Europea ha fatto i compiti a casa, e l'anno
scorso ha tagliato le sue emissioni del 5,4%. Cina e Usa hanno
registrato entrambe un incremento dello 0,9%, inferiore rispetto
agli anni precedenti, mentre l'India ha avuto un aumento del
7,8%. I quattro big dell'inquinamento, insieme ad altri 170
Stati, hanno messo nero su bianco i propri impegni 'non
vincolanti' per diminuire la CO2. Gli Stati Uniti si impegnano a
ridurre le emissioni del 26-28% nel 2025 rispetto ai livelli del
2005. L'Ue vuole ridimensionarle del 40% entro il 2030 rispetto
ai livelli del 1990. La Cina punta a raggiungere il picco
massimo di emissioni entro il 2030, e a ridurre la CO2 per unità
di Prodotto interno lordo del 60-65%. Le promesse dell'India
prevedono di abbassare la CO2 legata al Pil del 30-35% nel 2030,
e soprattutto di arrivare a produrre il 40% dell'elettricità da
fonti non fossili nel giro di 15 anni. Tra le restanti nazioni,
alcune come Etiopia, Messico e Marocco hanno presentato piani
ambiziosi; altre come la Russia, il Canada, il Giappone e
l'Australia non si sono sprecate troppo. Facendo la somma degli
impegni di tutti i Paesi, e assumendo che saranno rispettati,
l'aumento della temperatura globale entro il 2100 sarà di 2,7-3
gradi. Troppi. L'obiettivo su cui il mondo converge è limitare
l'impennata del termometro a due gradi rispetto ai livelli
preindustriali, meglio ancora un grado e mezzo. Se si sfora,
sostengono gli scienziati, gli effetti del cambiamento climatico
potrebbero essere devastanti. Un'economia 'carbon free' non è
certo gratis, per metterla in atto la volontà politica va
accompagnata allo stanziamento di risorse. Però i vantaggi,
anche economici, superano i costi. Lo ha già detto da tempo la
Banca Mondiale: combattere il cambiamento climatico farà
crescere il Pil mondiale fino a 2.600 miliardi di dollari
all'anno entro il 2030 in termini di nuovi posti di lavoro,
aumento dei rendimenti agricoli e benefici di salute pubblica.
La scelta tra lotta al cambiamento climatico e crescita
economica, insomma, è un falso dilemma. Non intervenire, al
contrario, ha un costo notevole che finisce soprattutto sulle
spalle dei più poveri. Un incremento delle temperature pari a
tre gradi, avverte l'Oxfam, da qui al 2050 porterà a 790
miliardi di dollari all'anno il conto che i Paesi in via di
sviluppo dovranno pagare per adattarsi al cambiamento climatico,
cui si aggiungono 1.700 miliardi all'anno di perdite economiche.
A quel punto i 100 miliardi elargiti dagli Stati ricchi
sarebbero davvero poca cosa.
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