Per 20 anni, fino al luglio 2010 quando venne commissariato dalla Banca D'Italia, il Credito Cooperativo Fiorentino secondo i pm Luca Turco e Giuseppina Mione, era il "bancomat" di Denis Verdini che ne era presidente e 'dominus'.
Per i giudici del tribunale di Firenze l'accusa aveva un fondamento, se è vero che al termine del processo di primo grado, iniziato il 13 ottobre 2015, hanno condannato il senatore di Ala a 9 anni e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Condanne da 1 anno e sei mesi a 6 anni per gli altri 33 imputati in quello che, nel tempo, era diventato un doppio processo: al crac del Ccf, con il reato di bancarotta, erano state legate le accuse di truffa allo stato per i fondi dell'editoria da parte della Ste, la Società Toscana di Edizioni che pubblicava il Giornale della Toscana, e della Sette Mari. Nell'aula bunker di Santa Verdiana il collegio presieduto dal giudice Mario Profeta, in camera di consiglio da sei giorni, è uscito alle 16.45.
In aula non c'erano nè Verdini nè il deputato di Ala Massimo Parisi (per lui 2 anni e 6 mesi di reclusione). Presenti invece molti degli altri imputati. Per l'ex direttore generale della banca, Piero Italo Biagini, la condanna più pesante dopo quella di Verdini, 6 anni di reclusione, perchè considerato l'esecutore delle 'direttive' del suo presidente.
I giudici hanno assolto tutti dall'accusa di associazione a delinquere che Turco e Mione avevano chiesto per lo stesso Verdini e alcuni imprenditori come Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei della Btp, anche loro condannati per bancarotta a 5 anni e mezzo. In pratica anche per colpa dei finanziamenti concessi dall' 'amico' Verdini alle loro società, è la tesi dei giudici, la banca sarebbe finita in crisi. Pene da 4 anni e mezzo a 5 anni, infatti, per tutti gli ex amministratori e i sindaci revisori del Ccf.
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e alla Banca D'Italia, parti civili nel procedimento, sono stati riconosciuti i danni subiti: a Palazzo Kock 175 mila euro mentre per la presidenza del Cdm i danni saranno liquidati in separata sede. Sulla Ste e la Sette Mari, tutte le accuse legate all'erogazione di fondi dal 2005 al 2007, sono andate prescritte, ma non quelle per il 2008 e il 2009. Per questo gli ex amministratori sono stati condannati a pene che vanno da un anno e mezzo a sei anni, mentre alla Presidenza del Consiglio andrà una provvisionale di 2,5 mln, complessivamente, che dovrà essere versata da Verdini, Parisi e da una decina di imputati. Decisa anche la confisca di beni per oltre 9 mln di euro, in totale, agli ex amministratori delle due società. Immediato l'annuncio dei ricorsi in appello, pur in attesa delle motivazioni, dai difensori.
Per tutti l'avvocato Franco Coppi, legale di Verdini ("Ci aspettavamo ben altra sentenza. Per fortuna il nostro ordinamento prevede l'appello"), e del difensore di Riccardo Fusi, l'avvocato Sandro Traversi ("Faremmo appello, continuiamo a credere che non esista il reato di bancarotta fraudolenta contestato a tutti" e, "tanto più, per un esterno" come Fusi). Una sentenza che non poteva non scatenare reazioni nel mondo della politica: Verdini, una lunga militanza a fianco di Silvio Berlusconi,, era "l'uomo che per l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi meritava di diventare Padre Costituente", ha commentato subito Michela Montevecchi, capogruppo M5s al Senato, a cui ha fatto eco Luigi Di Maio, mentre il leader della Lega Nord Matteo Salvini, anche lui sui social, collegava la vicenda alle elezioni e all'inchiesta Consip: "Ministri indagati, padri interrogati, alleati condannati, disoccupati aumentati. Basta cazzo, fate votare gli italiani! #votosubito". Pieno sostegno al loro leader dai senatori di Ala, Luigi Barani, Saverio Romano e Vincenzo D'Anna, tutti convinti che in appello Verdini dimostrerà le sue ragioni.
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