(di Fausto Gasparroni)
Il prossimo 8 giugno
ricorreranno i dieci anni dalla storica "Invocazione per la
pace" in Terra Santa promossa da papa Francesco, che per
l'occasione riunì nei Giardini Vaticani l'allora presidente
israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen (Mahmoud
Abbas). Un'iniziativa, a solo due settimane dal viaggio del
Pontefice in Israele e Palestina (24-26 maggio 2014), che con
gli occhi di oggi, nel pieno della tragica riesplosione del
conflitto in Medio Oriente, può ben definirsi "profetica".
Parteciparono anche il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo
e rappresentanti di cristiani, ebrei e musulmani della Terra
Santa. E proprio nel decennale del prossimo sabato 8 giugno, il
Papa ha deciso di commemorare, alle 9.30 nello stesso spazio dei
Giardini dove fu piantato un albero di ulivo, quell'evento "di
alto significato in favore della pace, in questo momento
difficile e preoccupante per la guerra fra Israeliani e
Palestinesi", scrive il cardinale decano Giovanni Battista Re
nella circolare d'invito inviata oggi a tutti i cardinali
residenti a Roma.
Sulla composizione del parterre per la nuova invocazione di
pace, oggi ancora più necessaria e stringente della precedente,
non c'è al momento una lista definitiva, ma si può presumere la
presenza anche di esponenti religiosi come pure di
rappresentanti istituzionali, pur con le limitazioni per gli
ebrei dovute al fatto che si tratta di un sabato.
Allora l'evento nei Giardini, con l'invocazione comune di
pace delle tre religioni monoteistiche e dei più alti
rappresentanti dei due popoli in conflitto, avevano mostrato al
mondo come fosse possibile aprire una nuova via, a partire da
una rafforzata vicinanza delle rispettive fedi, basata sul
rispetto e la fiducia, laddove la politica resta attanagliata
dai reciproci veti, dalle annose ostilità e diffidenze.
La politica per un giorno aveva lasciato il campo alle
religioni: l'ebreo Peres - nel frattempo scomparso - e il
musulmano Abu Mazen erano intervenuti da credenti. Ma certo la
loro immagine al fianco del Papa, gli abbracci che si
scambiarono tra loro e con il Pontefice, l'ulivo piantato
insieme nei Giardini, la foto di gruppo al termine del colloquio
finale, restano icone di una forza straordinaria. Nessuno si
illudeva che all'indomani sarebbe "scoppiata la pace". Ma, come
aveva auspicato papa Francesco, l'incontro poteva essere
"l'inizio di un cammino nuovo alla ricerca di ciò che unisce,
per superare ciò che divide".
I successivi dieci anni, e gli eventi più recenti, hanno
purtroppo contraddetto tali speranze. Troppi i morti, lamentava
già allora il Pontefice: "la loro memoria infonda in noi il
coraggio della pace", perché, aveva aggiunto, "per fare la pace
ci vuol coraggio, molto di più che per fare la guerra". Quindi
"dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla
violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei
patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla
doppiezza".
Nella sua preghiera, Francesco aveva ripetuto il grido "mai
più la guerra", perché con essa "tutto è distrutto". La
richiesta del Papa è stata anche di avere il coraggio di
compiere "gesti concreti per costruire la pace": insomma di
essere "ogni giorno artigiani della pace". Peres aveva definito
il Pontefice "costruttore di ponti di fratellanza e di pace" e
l'evento in Vaticano un "invito eccezionale" e una "commovente
occasione". Abu Mazen non aveva mancato di rilevare che "il
popolo della Palestina - musulmani, cristiani e samaritani -
desidera ardentemente una pace giusta, una vita degna e la
libertà", e pregato che il futuro dei palestinesi fosse
"prospero e promettente, con libertà in uno stato sovrano e
indipendente", chiedendo anche "sicurezza, salvezza e
stabilità".
Un seme comunque era stato gettato. E oggi il Papa, pur
davanti a un conflitto che appare quanto mai inestricabile,
invita a guardare ancora a quelle motivazioni per ritrovare una
speranza di pace.
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