Ogni pietra di Venezia ha una
storia da raccontare: perché in una città che sorge sull'acqua
il materiale edilizio deve essere appositamente importato, oggi
come allora, e il suo riutilizzo è da sempre all'ordine del
giorno. Lo sanno bene Lorenzo Calvelli, professore
all'Università Ca' Foscari ed esperto di epigrafia latina, il
cui lavoro è legato al Museo Archeologico Nazionale di Venezia,
che nel suo cortile custodisce alcuni dei più interessanti
reimpieghi epigrafici ritrovati nella città lagunare.
Contrariamente a molte altre città italiane, Venezia non
sorge su un insediamento antico di origine greco-romana, sotto
la città ci sono le barene. Già questo sarebbe sufficiente a
renderla unica nel panorama sia nazionale che mediterraneo;
tuttavia, nel corso dei secoli sono arrivati moltissimi
materiali edilizi di epoca greco-romana, soprattutto dalla
vicina città di Altino, che sono stati utilizzati per la
costruzione di edifici, vere da pozzo, o per abbellire la città
stessa.
Un esempio lampante è la struttura originaria del "Paron de
casa", il Campanile di San Marco, risalente al IX-X secolo che,
come si scoprì in seguito al crollo del 14 luglio 1902 e allo
scavo delle fondazioni, fu edificata con materiali di reimpiego.
Per l'occasione, si chiamò a sovrintendere i lavori l'archeologo
veneziano di fama mondiale Giacomo Boni, già autore degli scavi
del Foro Romano e del restauro di Palazzo Ducale, il quale
appurò proprio l'utilizzo di mattoni bollati e pietre di epoca
romana. Di questa importante scoperta ne resta testimonianza una
stele funeraria in pietra, inserita nel quarto gradone del
basamento del campanile e oggi custodita al Museo diocesano
d'arte sacra Sant'Apollonia. È il caso, per esempio, di un'urna
cineraria a cassetta, conservata nel cortile del Museo
Archeologico Nazionale di Venezia. Databile tra I-II secolo d.C,
la sua storia resta ancora leggibile sulla superficie della
pietra, dove sono poste due iscrizioni, in una sorta di dialogo
a distanza tra donne. Se da un lato si riesce a decifrare che
Hicete Terenzia, schiava liberata di Caio, ordinò che fosse
fatto per testamento un monumento funerario per sé stessa, la
madre, il padre e la sorella, dall'altro si documenta il
trasferimento di quella che ormai era diventata una vera da
pozzo al monastero delle benedettine di Ognissanti, nel sestiere
di Dorsoduro, avvenuto all'epoca della badessa Pacifica
Barbarigo nel 1518.
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