"Mio padre non ha mai avuto
risentimento nei confronti di quel gesto così infame. Ne parlava
poco, ma non ha mai speso parole di condanna, piuttosto di
pacificazione verso i suoi concittadini", dice così Leila
Fabiani, figlia di Luciano, raccontando dell'assalto alla casa
di famiglia e dell'incendio della biblioteca nei giorni dei moti
aquilani.
"Mio padre da subito cercò di rileggere il problema come una
manifestazione di ignoranza collettiva e cercò di capire chi
fosse stato il manovratore. Non è stato facile, nell'immediato,
capire questa posizione, ma grazie al suo atteggiamento di
pacificazione abbiamo superato la paura dell'aggressore, un
rischio concreto per un adolescente come me. Non furono mai
usate parole di vendetta da parte di mio padre".
Leila Fabiani al tempo dei moti aveva sedici anni, ma la
memoria è rimasta sempre viva, metabolizzata grazie all'esempio
pacificatore di Luciano "che mai", come sottolinea Leila "ebbe
parole di risentimento e vendetta verso quella violenza". Dopo
la fine dell'allarme sicurezza, era chiaro che lo scontro
politico a cui ci si appellava per le violenze, era campato in
aria e non basato sui fatti. "Mio padre si sforzò sempre, per il
resto della sua vita, a capire chi fosse stato il manovratore
dell'ignoranza della gente".
"A distanza di tempo non c'è stata né rabbia, né
rivendicazione, né astio nei confronti di chi aveva dato fuoco a
casa. I discorsi di mio padre erano orientati a capire chi
avesse manovrato", dice Leila Fabiani analizzando i fatti a
distanza di cinquant'anni.
Grazie all'equilibrio dell'atteggiamento di Luciano Fabiani
verso gli assalitori, i giovani figli non caddero nella trappola
della sindrome da accerchiamento e continuarono a vivere da
adolescenti la propria città. "L'esempio di mio padre ci diede
una via d'uscita dal livore, con quel disorientamento in cui si
devono riprendere le misure per avere rapporti con il prossimo.
Una buona palestra per capire il senso all'impegno politico:
mettersi in gioco per le proprie idee, come fece papà. Mio padre
parlava poco dei moti. Era rimasto male per l'accaduto,
soprattutto per il senso di colpa di aver messo a rischio la
propria famiglia e l'unico che bene che avevamo, la casa. Ha
speso, nel tempo, questo brutto episodio come esempio
emblematico di rischio dell'impegno politico. Personalmente, a
distanza di cinquant'anni, penso che la crescita della città sia
stata permeata da ambiguità. La scelta politica di mediazione
fatta, di cui mio padre fu ispiratore, è stata compresa come
strada per non perdere il capoluogo, data l'inferiorità numerica
nell'assemblea regionale dei rappresentanti dell'aquilano. Tutti
gli aquilani ricordano che cosa stessero facendo in quei giorni
dei moti e sanno dove si trovassero durante gli scontri. Ma
nessuno ha mai detto, con onestà, che cosa sia successo nella
testa della gente. Non sono stati fatti i conti con le proprie
azioni. Non ho conosciuto una sola persona che abbia
rivendicato, giustificandoli, quegli atti di violenza. Ma
qualcuno li ha commessi. Quindi i conti non tornano", conclude
Leila Fabiani.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA