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In evidenza
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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Flavio Natale
Per parlare di futuro del lavoro (un tema ampiamente trattato, sia sul nostro sito che su altri) senza scadere nelle solite argomentazioni, proviamo a partire da una distinzione, che potrebbe sembrare arbitraria ma non lo è poi così tanto: quella tra lavoro utile e superfluo. Per come la intendo, questa differenza prescinde dal rapporto qualitativo che abbiamo con il nostro caro lavoro – se ci piace, quali finalità ci troviamo eccetera (argomento che abbiamo già affrontato qui) – ma riguarda un aspetto squisitamente quantitativo: quanto lavoriamo e cosa facciamo mentre lavoriamo.
Supponiamo di essere impiegati in un’azienda o amministrazione X, e che il capo dell’azienda o dell’amministrazione X ci dia un compito. A prescindere da quanta passione abbiamo per questo lavoro, portare a termine il compito potrebbe risultare un’attività sensata: l’azienda ha un obiettivo, noi sappiamo come raggiungerlo e per questo veniamo pagati. Molto meno sensato risulta invece, a lavoro finito, restare in azienda o nell’amministrazione X solo per "far vedere che stiamo lavorando" (aspetto che riguarda non solo la presenza fisica, ma anche quella virtuale, quindi email, chiamate al telefono e altro) oppure, altro esempio, dover passare più tempo a catalogare il lavoro in cartelle e sottocartelle condivise con gruppi e sottogruppi piuttosto che a terminare il compito stesso (le cartelle e sottocartelle a volte sono utili, ma altre volte sono un incredibile generatore di entropia).
Tutto questo per dire che gran parte del discorso sul lavoro del futuro potrebbe riguardare (e sta già riguardando) lo sfoltimento dei compiti superflui, l’ottimizzazione dell’inutilità. Un discorso che, se da una parte potrebbe portare enormi benefici (Microsoft ha annunciato che sta per “trasformare il mondo professionale” grazie a un’Ai che smaltirà la maggior parte di email, Excel e documenti Word su cui non vogliamo lavorare), dall’altra potrebbe condurre a conseguenze estreme, se il superfluo diventiamo noi stessi.
Ora proviamo a inserire questa ipotesi nei tre campi che più di tutti possono descrivere una giornata lavorativa standard: il tempo di lavoro, il luogo e la modalità.
Cambiare il tempo
Qualche settimana fa è uscito questo studio sulla settimana lavorativa corta prodotto dall’Università di Cambridge, una ricerca che ha fatto abbastanza discutere, perché i risultati sono stati incredibilmente positivi. Delle 61 aziende del Regno Unito per circa 2.900 dipendenti totali che hanno partecipato al test (per un periodo di sei mesi), molte hanno trovato notevoli pro nella settimana lavorativa corta, contando invece i contro sulle dita di una mano.
Secondo gli intervistati, infatti, la settimana di quattro giorni (senza alcuna riduzione dei salari) ha diminuito significativamente lo stress e le malattie sul luogo di lavoro. Circa il 71% dei dipendenti ha detto di aver provato, durante l’esperimento, livelli inferiori di “esaurimento” e il 39% di essere “meno stressato” rispetto all'inizio del processo. I ricercatori hanno riscontrato inoltre una riduzione del 65% dei giorni di malattia e un calo del 57% del numero di dipendenti che hanno abbandonato le aziende (rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente). E anche i ricavi (il grande e comprensibile spauracchio delle imprese) non sono scesi, ma anzi sono aumentati in media dell’1,4% per le 23 organizzazioni in grado di fornire dati. Così, il 92% delle aziende (56 su 61) che ha preso parte al programma pilota ha dichiarato di voler continuare con la settimana lavorativa corta.
Naturalmente, non sono state tutte rose e fiori: diversi dipendenti hanno lamentato il carico di lavoro eccessivo, mentre alcuni impiegati di aziende creative hanno espresso inquietudine per la riduzione della convivialità (a favore delle intense sessioni di lavoro senza interruzioni), sostenendo che i momenti di incontro non strutturati possono essere fucina di nuove idee.
Nel complesso, però, le aziende che hanno ridotto l'orario lavorativo ne sono uscite soddisfatte, anche perché lo hanno fatto senza scendere a compromessi sugli obiettivi. Come? Attraverso riunioni più brevi e ordini del giorno chiari, riducendo le lunghe catene di posta elettronica, stabilendo obiettivi di fine giornata e preavvisi per il giorno successivo. Un caso di riduzione del superfluo, insomma.
Il concetto di settimana lavorativa corta non è però sempre lo stesso, ma ha due o tre diverse declinazioni. È importante capirne la differenza per sapere cosa ci aspetta in futuro.
Il primo caso riguarda la riduzione delle giornate di lavoro accompagnata da un’effettiva contrazione delle ore lavorative, a parità di salario: quindi, ad esempio, 32 ore su quattro giorni invece di 40 su cinque. Il secondo modello, diffuso in Belgio nel 2022, riguarda invece una compressione delle ore (le ipotetiche 40 su quattro giorni invece di cinque) allungando l’orario dal lunedì al giovedì (sempre a parità di salario). Poi c’è la modalità ibrida, di cui vediamo qualche esperimento anche in Italia. Intesa Sanpaolo ha applicato una diminuzione minima delle ore (da 37,5 settimanali a 36) accompagnata però dalla riduzione da cinque a quattro giorni (quindi con nove ore di lavoro al giorno). La proposta di Lavazza riguarda invece una settimana di quattro giorni e mezzo, il cosiddetto “venerdì breve”, che permetterà ai dipendenti di uscire prima dall’ufficio (per un periodo che va da maggio a settembre). Condensare lo stesso numero di ore di lavoro in un quantitativo minore di giorni potrebbe risultare stressante e problematico sul piano lavoro-vita privata. Ma è anche vero che, una volta superato lo shock, il trauma potrebbe essere assorbito. Sempre tornando allo studio di Cambridge, molti dei dipendenti hanno detto che avere un giorno libero in più ha permesso loro di dedicare l’ipotetico venerdì alla spesa e alle faccende domestiche (prima relegate al weekend), per regalarsi un’autentica pausa durante il fine settimana.
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