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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Maddalena Binda e Milos Skakal
Per chi frequenta le manifestazioni e scende in piazza almeno una volta l’anno in occasione della Festa delle lavoratrici e dei lavoratori il 1° maggio, il tema del reddito universale garantito e incondizionato non è una novità. Sono infatti più di dieci anni, almeno, che una parte consistente della società in Italia, ma in realtà in tutto il mondo, chiede che ogni individuo riceva dei soldi dallo Stato per poter, molto semplicemente, esistere. Il reddito universale di base prevede un sussidio mensile erogato dallo Stato a tutta la cittadinanza, indipendente dalla situazione socio-economica della persona e non condizionato alla ricerca di un lavoro. Scopo della misura è ridurre la povertà e le disuguaglianze: attraverso il reddito universale di base si potrebbe garantire la possibilità di affrontare le spese essenziali. Il reddito universale di base potrebbe inoltre stimolare i consumi, contribuendo alla crescita dell’economia e alla creazione di nuovi posti di lavoro.
Alcune critiche sostengono che offrire “denaro gratis” a tutta la popolazione non sia il modo migliore per aiutare le fasce più vulnerabili. L’aumento generale della ricchezza potrebbe anche essere controbilanciato dalla crescita dell’inflazione, vanificando l’impatto positivo del reddito universale di base. Rimangono delle incognite, come per esempio se debba sostituire sussidi già presenti o possa corrispondere a una agevolazione fiscale, oppure da dove prendere i fondi con cui finanziare questa misura. Rispetto a quest’ultimo tema, è stato stimato che in Italia sarebbero necessari 480 miliardi di euro l’anno (il 24,5% del Pil) per garantire a ogni cittadina e cittadino una somma almeno pari alla soglia di povertà relativa. Il calcolo è di Andrea Fumagalli, economista e vice-presidente del Basic income network Italia.
Preoccupa anche il possibile impatto di tale misura sulle persone disoccupate: ricevendo un sussidio fisso le persone potrebbero non essere invogliate a cercare un impiego. O addirittura potrebbero essere incentivate a smettere di lavorare. Tuttavia, il reddito universale di base potrebbe permettere alle persone di rifiutare lavori considerati non soddisfacenti, di investire nella propria formazione per acquisire nuove competenze, di avere tempo da dedicare alla cura della propria famiglia o di avviare una attività in proprio. Con un reddito universale di base potrebbe essere più semplice per le persone rassegnare le dimissioni in caso non siano soddisfatte della propria situazione lavorativa. Questo potrebbe portare a una maggiore attenzione e a un generale miglioramento delle condizioni lavorative.
Le esperienze contemporanee di reddito di base. Attualmente nessun Paese ha implementato un vero modello di reddito universale, ma piuttosto sono stati lanciati specifici programmi pilota limitati territorialmente e temporalmente, con differenti fonti di risorse (utilizzando anche donazioni da privati), con diverso ammontare degli importi distribuiti mensilmente. The Basic income earth network (Bein) è un gruppo internazionale che studia e promuove l’applicazione del reddito universale in tutti i Paesi del mondo.
Dalle esperienze fatte appaiono evidenti vantaggi quali incremento dell’istruzione, dell’occupazione, il miglioramento dello stato di benessere, mentre non si osservano fenomeni di “parassitismo”. Di seguito alcune esperienze condotte recentemente.
Gli Stati uniti hanno effettuato una dozzina di esperimenti di reddito universale, ma il più notevole è l'Alaska permanent fund tuttora in corso: ogni cittadino riceve una quota delle entrate del petrolio e del gas americano che varia tra mille e 2mila dollari al mese. I risultati del programma non hanno avuto alcun effetto sull'occupazione, ma hanno avuto un effetto sul tasso di fecondità, incoraggiando le persone ad avere più figli.
L'India ha avuto un programma pilota sul reddito di base tra il 2011 e il 2012. Il programma era rivolto a 6mila residenti del Madhya Pradesh e i risultati hanno mostrato che c'è stato un miglioramento della nutrizione, delle condizioni igienico-sanitarie e la frequenza scolastica tra i bambini è aumentata.
In Namibia dal 2008 al 2010 tutti i cittadini con meno di 60 anni di età residenti nella regione Otjivero – Omitara hanno ricevuto 100 dollari namibiani al mese in modo incondizionato (pari a circa 5 euro al mese). Dopo la fine della sperimentazione, la coalizione governativa e di organizzazioni non governative che aveva promosso il progetto è riuscita a prolungare l’erogazione del reddito per 80 dollari namibiani al mese sino alla fine del 2012.
La Finlandia ha lanciato nel 2017 un programma sperimentale sul reddito di base destinato ai cittadini disoccupati. Il programma si rivolgeva a 2mila partecipanti selezionati a caso e ciascuno riceveva 560 euro al mese per due anni. Il programma si è concluso nel 2018 e i risultati hanno mostrato che i partecipanti erano più felici e meno stressati, portando a un miglioramento dello stato di salute.
In Germania Mein Grundeinkommen ha iniziato nel 2020 una sperimentazione pilota di reddito universale, utilizzando a tale scopo fondi provenienti da donazioni private. Il progetto è seguito e valutato dal German institute for economic research e coinvolge almeno 120 persone alle quali viene erogata la somma di 1.200 euro mensili per tre anni.
Infine, in Spagna, a partire da gennaio 2023 è partito un progetto pilota in due Comuni della Catalogna, dove a 10mila persone saranno erogate mensilmente le somme di 800 euro per adulto e 300 per giovane over 18 anni, per la durata di 24 mesi.
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Le prospettive future del reddito universale. Proiettato negli anni a venire, il reddito universale potrebbe essere il collante con cui tenere insieme le società, giuste, del futuro. Infatti, aleggia da tempo la convinzione per cui le importanti innovazioni che si verificheranno nel campo delle tecnologie saranno motore di una nuova rivoluzione nel mondo del lavoro. L’automazione dei lavori più duri e ripetitivi è una realtà per le società tardo-capitaliste fin dagli anni 1980, e la tendenza va verso una sempre più incisiva sostituzione del lavoro umano con il lavoro svolto dalle macchine. Ne è un esempio, anche se i suoi risvolti sono ancora tutti da scoprire, l’avvento di ChatGpt, che ha fatto tremare il mondo dei traduttori e dei giornalisti, timorosi di essere sostituiti dal software.
Secondo uno studio realizzato dall’Università di Trento nel 2021, intitolato “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, la “rivoluzione digitale” che stiamo attraversando porterà a un innalzamento significativo della disoccupazione tecnologica, ovvero del numero di persone la cui mansione è stata sostituita da una macchina. Secondo il paper, il 33,2% dei lavoratori in Italia svolge un’occupazione che con molta probabilità verrà presto rimpiazzato dalle macchine.
Ci si interroga sulle prospettive di aumento della disoccupazione nel prossimo futuro. Il sistema economico che nascerà dalle transizioni verde e digitale creerà più posti di lavoro di quelli che distruggerà? Durante questa transizione, come sopravviveranno i milioni di persone che non avranno un impiego? Nella storia del sistema di produzione capitalista, la disoccupazione tecnologica è un concetto che è stato affrontato fin dai primi pensatori. David Ricardo, Joseph Schumpeter e John Maynard Keynes sono solo alcuni dei teorici classici che hanno affrontato questo tema nelle loro ricerche. Anche se, per semplificare, le loro posizioni portano ad affermare che ogni volta che il ciclo di produzione “riparte” dopo una crisi sistemica il numero di posti di lavoro creati supera quello dei posti di lavoro distrutti, questo potrebbe non essere più vero in futuro e potremmo trovarci di fronte a un evento mai visto prima.
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