Si sono ritirati in camera
di consiglio i giudici della Corte d'appello di Reggio Calabria,
presieduta da Elisabetta Palumbo, per emettere la sentenza di
secondo grado nei confronti dell'ex sindaco di Riace Domenico
Mimmo Lucano, imputato - insieme ad altre 17 persone - nel
processo "Xenia" nato da un'inchiesta della Guardia di finanza
sul modello "Riace". Per Lucano la Procura generale,
nell'ottobre 2022, ha chiesto la condanna a 10 anni e 5 mesi di
reclusione per presunti illeciti nella gestione dei progetti di
accoglienza dei migranti. Una pena inferiore a quella che era
stata comminata in primo grado, nel settembre 2021, dal
Tribunale di Locri che aveva condannato Lucano a 13 anni e 2
mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa,
peculato, falso e abuso d'ufficio.
I giudici sono entrati in camera di consiglio dopo che i
sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio
Giuttari hanno svolto una breve replica.
I difensori di Lucano, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano
Pisapia, nelle loro arringhe, hanno contestato la ricostruzione
accusatoria chiedendo l'assoluzione per il loro assistito e
parlando di "un accanimento non terapeutico". Ma anche di "uno
stravolgimento dei fatti" e di "un uso distorto delle
intercettazioni" per arrivare a una condanna "a ogni costo" di
Mimmo Lucano. Su una conversazione ritenuta "chiave" dai
difensori, infatti, il Tribunale di Locri ha utilizzato una
trascrizione della guardia di finanza dove c'è una frase
"inesistente", attribuita all'ex sindaco di Riace. Frase che non
compare nella perizia disposta dallo stesso Tribunale. Nelle
motivazioni d'appello, infatti, i due legali parlano di "lettura
forzata se non surreale dei fatti". L'obiettivo di Mimmo Lucano,
piuttosto, "era uno solo ed in linea con quanto riportato nei
manuali Sprar: l'accoglienza e l'integrazione. Non c'è una sola
emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale
si possa desumere che il fine che ha mosso l'agire del Lucano
sia stato diverso".
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