Un abito una storia. Nel mondo del fast fashion, delle 7 collezioni l’anno anche quando le stagioni sono ormai ridotte a due, ecco che dare un valore ad un singolo abito sembra difficile persino anacronistico. Gli abiti un tempo neppure troppo antico, fino a 30-40 anni fa ancora, si cucivano in casa o con l’aiuto delle sartine, si passavano di famiglia in famiglia, a meno di non essere molto borghesi, si rigiravano, ritagliavano, adattavano. Oggi che il sistema moda ci ha imbrigliati progressivamente in un contesto per cui anche ciò che è materialmente utilizzabile diventa socialmente inutilizzabile e perciò bisognoso di essere sostituito , dare valore alla parte emozionale ed esperienziale che l’abito porta con sé è qualcosa da riscoprire, è un fatto culturale. (di Alessandra Magliaro)
Sara Conforti, vulcanica artista piemontese di origine operaia (per 10 anni collaboratrice di Michelangelo Pistoletto), archivista di testi del ‘500, ha orientato con la sua associazione hoferlabproject una serie di progetti che legano la moda e il costume a pratiche e progetti sociali, progetti multidisciplinari (come la nota performance del concerto di 13 mila macchine per cucire) sulla narrazione intorno all’abito.
Con la sua apecar porta in giro per piazze di paese l’antica sartoria errante, laboratori nomadi, dove invita le persone a lavorare su un proprio abito, insegnando i fondamentali del cucito, cercando con creatività e saper fare di comunicare moda tra cultura, identità e responsabilità sociale.
Con Confashion (con cui ha girato varie città, ultima Milano in occasione di Fa’ la cosa giusta a marzo) ha utilizzato un tradizionale confessionale di chiesa trasformandolo in una specie di ‘zona franca’ di ricerca e dialogo in cui chiede al pubblico di portare un abito e tirar fuori la storia che è poi una storia personale, innescando così nel pubblico quel circuito di narrazione, reciprocità e condivisione del vissuto, ritratti vestimentari come li chiama lei che conta di farci una mostra e un libro. ‘’Sono spesso storie di dolore e sofferenza – racconta Sara Conforti – donne che portano al Confashion l’abito della violenza subita, quello simbolico di una storia finita, persino quello messo per il primo incontro in chat in una delle tante truffe affettive cui stiamo assistendo in questi anni di relazioni via internet’’. Oppure sono gli abiti della memoria storica, come quello di Margherita, 93 anni, staffetta partigiana che ha portato il suo abito di ragazza durante la realizzazione di un documentario, Il patto della montagna, che racconta le vicende di Biella, il distretto tessile oggi in profonda crisi dove durante la guerra era nata una sartoria partigiana e dove successivamente aziende familiari, filatoi e orletai avevano dato benessere e vanto a tutta l’Italia, oggi ridotti a un paio di grandi società come Zegna e Marzotto.
Pensare all’abito, a cosa significa per noi, è necessario in questi tempi, avere un pensiero critico sulla moda contemporanea, a partire dall’impatto ambientale delle coltivazioni del cotone con quello che significa in tema di inquinamento, per arrivare all’impatto umano in termini di salario. I 25 centesimi l’ora con cui nell’est del mondo i laboratori di operai/schiavi – la tragedia del Ranaa Plaza dovrebbe aver aperto gli occhi anche quelli di chi faceva finta di non sapere – fanno si che il fast fashion ma non solo quello, arrivi nei nostri negozia a farci comprare capi da pochi euro, qualche decina al massimo.
Leggere le etichette, saperle leggere e chiedere con le firme che nel mondo si stanno raccogliendo, che contengano più informazioni sulla filiera, tracciabilità, è un passo di consapevolezza e maturità importante. Lavoro, responsabilità sociale e ambientale: tutto ci riconduce all’abito e al suo valore se impariamo ad attribuirglielo.
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