Nell’era del web, la violenza come è noto corre anche in rete e le donne sono le principali vittime del “discorso d’odio” online, come dimostrato dal fenomeno degli haters scatenati in gruppi chiusi di Facebook, dove spesso si registrano insulti sessisti e volgari o da altri continui esempi (l'ultimo in ordine di tempo ha riguardato la presidente della Camera Laura Boldrini).
Nel maggio del 2016, è stata istituita alla Camera dei deputati la Commissione sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, intitolata alla memoria della parlamentare inglese Jo Cox, uccisa prima di un comizio elettorale per le sue posizioni a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. La relazione finale redatta dalla Commissione Jo Cox si è concentrata anche sul tema della violenza di genere e ha messo in evidenza come questo tipo di violenza abbia una matrice culturale fortissima, che nasce innanzitutto dalla convinzione di “debolezza e inferiorità” femminile.
“Le manifestazioni di odio nei confronti delle donne si esprimono nella forma del disprezzo, della degradazione e spersonalizzazione, per lo più con connotati sessuali”, si legge nel documento conclusivo.
Secondo il recente progetto delle Mappe dell’intolleranza curato da Vox - l’Osservatorio italiano sui diritti che attraverso Twitter è riuscito a geolocalizzare le zone dove razzismo, odio verso le donne, omofobia e discriminazione verso i diversamente abili sono maggiormente diffusi - uno dei social più attivi nel condividere l’odio verso le donne è Twitter, con oltre 1 miliardo di tweet sessisti rilevati (su un campione di oltre 2 miliardi complessivi). Secondo la ricerca sulla misoginia condotta da Vox, i tweet contro le donne sono i più numerosi. Si twitta l’odio in tutta Italia: Milano, insieme a Roma, sono le città più intolleranti (rispettivamente con 8.134 e 8.361 tweet contro le donne).
La diffusione dei social media sembra alimentare anche un bisogno di visibilità sociale: postare o condividere immagini e contenuti, anche personali e intimi, cercare consensi (like) e via dicendo. Questi comportamenti costituiscono esempi di un «esibizionismo mediatico» che spinge adulti e minori a atteggiamenti disinvolti, disinibiti, spesso incuranti degli effetti reali delle condotte online. Secondo un’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza del 2016, su un campione di oltre 7.000 adolescenti italiani il 4% dichiara di aver inviato – attraverso Instagram o Facebook - foto e video di se stesso in atteggiamenti sessuali attraverso i canali social e il 10%, tra cui anche ragazzi non ancora adolescenti, ha scattato selfie intimi. In questo contesto, è facile immaginare che si possa cadere in trappole come grooming, sexting e revenge porn.
«Questi comportamenti aggressivi e denigratori on line, in particolare quando riguardano minori, rientrano in quel più ampio fenomeno di sfruttamento e abuso sessuale ai loro danni che il legislatore italiano, anche alla luce della normativa sovranazionale ed europea, ha definito come “nuove forme di schiavitù”», ha commentato Natalina Folla, ricercatrice e docente di Diritto penale dell’Università di Trieste e relatrice al Convegno Erickson “Affrontare la violenza sulle donne”, a Rimini il 13-14 ottobre.
«Il grooming, ad esempio, si verifica quando gli adulti per mezzo delle tecnologie di comunicazione e di informazione, propongono intenzionalmente ai minori, con condotte insidiose, ingannatorie o minacciose, volte a carpirne la fiducia, degli incontri con lo scopo di commettere atti sessuali o a carattere pornografico. La pratica del sexting, sempre più diffusa anche tra i minori e con risvolti giurisprudenziali contrastanti, consiste nell’invio di immagini connotate sessualmente con il mezzo del cellulare o via Internet. La pubblicazione di foto o video intimi e pedopornografici sul web, posta in essere generalmente dopo la fine di una relazione sentimentale o affettiva, a scopo di vendetta (revenge porn), vede colpite soprattutto ragazze per mano dei loro ex partner». Tutte queste azioni «ledono gravemente la dignità delle persone coinvolte e, quanto ai minori, ne compromettono lo “sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale”», ha concluso Folla. «Per tutelarli il legislatore ha previsto strumenti penali repressivi, all’interno del codice penale, potenziati anche da riforme recenti, che vanno a rafforzare le strategie di protezione di natura preventiva ed educativa».
L’obiettivo da raggiungere è quello di rendere la rete e i social network un luogo aggregativo e di confronto positivo. In questo scenario, il ruolo dell’informazione (giornali, telegiornali, programmi d’informazione tramite stampa, tv e web) continua a rimanere centrale nell’influenzare la percezione di un problema e nel creare o meno distorsioni nell’immaginario collettivo. È opportuno, ad esempio, evitare di riferirsi alle donne come “soggetti deboli” o vittime predestinate.
Nell’era del web, la violenza corre anche in rete e le donne sono le principali vittime del “discorso d’odio” online, come dimostrato dal fenomeno degli haters scatenati in gruppi chiusi di Facebook, dove spesso si registrano insulti sessisti e volgari.
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